sabato 2 gennaio 2010

donne di ferro.

In famiglia eravamo in quindici, undici figli, padre madre nonna nonno. Abitavamo tutti insieme in una casa a via Giusso. Tutti gli uomini della mia famiglia, da mio nonno ai miei fratelli, hanno lavorato all’Italsider. Le donne invece restavano a casa. Il discorso metalmeccanico era un discorso solo maschile. La mia famiglia è sempre stata comunista, a quei tempi Bagnoli era tutta rossa. Mi ricordo che durante lo sciopero dei cinquanta giorni, io portavo da mangiare a mio padre che era chiuso dentro la fabbrica insieme agli altri operai. Anche mia madre era una militante del Pci, stava nella cellula La Strada. Io si può dire che so’ nata comunista a’ dint ’a panza e mammema. Noi siamo però sempre stati anche cattolici, perché un comunista può essere anche cattolico. A essere sincera devo dire che io mi sono avvicinata davvero al partito quando ero già sposata, l’ho fatto per capire mio marito, la sua passione. Gli uomini a quei tempi parlavano poco quando tornavano a casa. Erano sempre stanchi. Le donne hanno cominciato a sapere di quello che succedeva dentro la fabbrica solo quando è arrivata la crisi, e allora sono scese in piazza insieme ai mariti, ai figli.
La fabbrica noi l’avevamo dentro casa. La polvere nera era dappertutto, sul balcone, dentro le camere da letto, nella pelle. Sì, nella pelle. Le ginocchia dei miei figli le dovevo lavare con la retina per farle tornare pulite. Queste inferriate per farle rimanere bianche le pulivo tutti i giorni. I panni erano sempre neri, quanti corredi ci hanno rimesso le donne di Bagnoli. Dint’ a stu palazzo tenimmo tutte ’e rini a piezze, stevomo sempe a puluzza’ . A quei tempi non lo sapevamo che quella polvere nera faceva male. Gli uomini spesso tossivano, c’erano casi di silicosi, ma noi non ci lamentavamo mai. E pure quando ce lo dicevano che faceva male, che dovevamo fare? quello per noi era pane, l’unico pane sicuro. La fabbrica per noi era tutto. Quando l’hanno chiusa è stato un lutto che non si può raccontare, in tutte le famiglie si stava male, si viveva quel momento piangendo. Tanti uomini sono entrati in depressione. A 50 anni sei ancora giovane, non te ne puoi stare con le mani in mano. Mio marito se l’è cavata solo perché aveva il partito. Per il marito di mia sorella invece è stato un brutto colpo, lui aveva solo il lavoro. È stata una grande sconfitta per tutti: avevamo lottato per non far chiudere la fabbrica, anche noi donne scendevamo in piazza. Scioperi, assemblee, picchetti di notte. Con un gruppo di donne andavamo casa per casa a fare volantinaggio. Molte di noi sono andate pure a Bruxelles; io no, perché avevo 3 figli, e non li potevo lasciare soli. Quelli sono stati momenti difficili ma anche bellissimi, stavamo tutti insieme, ci aiutavamo l’un l’altro.
Uno dei ricordi più belli della fabbrica per me è stato l’8 marzo in fabbrica, gli operai ci facettero trova’ ’e mimos’, gli uomini fecero pure una gara di cucina, alla fine vinse mio marito con un meraviglioso risotto ai funghi. Tengo ancora le foto con Franco vestito da cuoco. Erano venuti a suonà da Pomigliano e’ Zezi. Poi ci fu il discorso del sindaco, il primo sindaco comunista. Valenzi iniziò il discorso come faceva Berlinguer: “Care compagne…”. Era una cosa quel care compagne che ti faceva emozionare tutta. Ti faceva venire la pelle d’oca, perché in effetti la donna a quel tempo non era considerata assai.
Oggi il discorso sulla società industriale non gode di buona salute. Nessuno ne parla più, eppure è passato così poco. Il mondo delle grandi industrie va spegnendosi sotto i colpi di un sistema lavorativo, sociale, culturale, flessibile, atemporale e aspaziale, che ha scardinato il precedente mondo del lavoro e le sue griglie interpretative e di collocazione. Anche gli studi sulla fabbrica conoscono sempre meno fortuna:
l’industria, le sue donne e i suoi uomini sono stati abbandonati, dimessi, vinti dai cambiamenti del mercato e delle ideologie. La loro voce si è fatta sempre più labile di fronte alla fine di quel sistema economico e di valori, ma basta tendere l’orecchio che è possibile sentire ancora le sirene degli stabilimenti, la fatica del lavoro, i canti delle grandi manifestazioni così come vengono ricordati da quel mondo di vinti, che è il mondo della fabbrica.

Maria Scherillo


racconto tratto da
"Donne di ferro. Racconti dell’Ilva Italsider"
di Renata Pepicelli
Edizioni Mesogea