domenica 18 luglio 2010

In verità, sono pochi coloro che sanno dell'esistenza di un piccolo cervello in ciascuna delle dita della mano, in qualche punto tra falange, falangina e falangetta. Quell'altro organo che chiamiamo cervello, quello con cui veniamo al mondo, quello che trasportiamo nel cranio e che trasporta noi affinché noi trasportiamo lui, non è mai riuscito a produrre altro che intenzioni vaghe, generiche, diffuse, e soprattutto poco variate, riguardo a ciò che le mani e le dita dovranno fare. Se, per esempio, al cervello della testa è venuta l'idea di una pittura, o di una musica, o una scultura, o un brano letterario, o una statuina di terracotta, lui non fa altro che manifestare il desiderio e rimanere poi in attesa, a vedere cosa succede. Solo perché ha trasmesso un ordine alle mani e alle dita, crede, o finge di credere, che questo era tutto ciò di cui c'era bisogno perché il lavoro, dopo un certo numero di operazioni eseguite dalle estremità delle braccia, si presentasse fatto. Non ha mai avuto la curiosità di domandarsi per quale ragione il risultato finale di codesta manipolazione, sempre complessa persino nelle sue espressioni più semplici, assomigli tanto poco a quello che aveva immaginato prima di dare istruzioni alle mani. Si noti che, quando nasciamo, le dita non hanno ancora un cervello, che ci si va formando a poco a poco con il passare del tempo e l'aiuto di ciò che vedono gli occhi. L'aiuto degli occhi è importante, tanto quanto l'aiuto di ciò che da essi viene visto. Ecco perché quanto di meglio le dita hanno sempre saputo fare è stato proprio rivelare l'occulto. Quello che nel cervello potrebbe essere percepito come scienza infusa, magica o soprannaturale, qualsiasi cosa significhino soprannaturale, magico e infuso, sono state le dita e i loro piccoli cervelli a insegnarglielo. Perché il cervello della testa sapesse cos'era la pietra, prima c'è stato bisogno che le dita la toccassero, ne sentissero l'asperità, il peso e la densità, c'è stato bisogno che vi si ferissero. Solo molto tempo dopo il cervello ha capito che da quel pezzo di roccia si sarebbe potuta fare una cosa che avrebbe chiamato coltello e una cosa che avrebbe chiamato idolo. Il cervello della testa è sempre stato in ritardo per tutta la vita rispetto alle mani, e anche ai nostri giorni, quando ci sembra che le abbia oltrepassate, sono ancora le dita che devono spiegargli le investigazioni del tatto, il fremito dell'epidermide quando sfiora la creta, l'acuta lacerazione dello scalpello, la morsa dell'acido sulla piastra, la vibrazione sottile di un foglio di carta disteso, l'orografia delle tessiture, la trama delle fibre, l'abbecedario in rilievo del mondo. E i colori. Per dovere di verità bisogna dire che, di colori, il cervello se ne intende assai meno di quanto creda. Certo è che riesce a vedere più o meno chiaramente ciò che gli occhi gli mostrano, ma per lo più soffre di quelli che potremmo definire problemi di orientamento ogni volta che arriva il momento di convertire in conoscenza quanto ha visto. Grazie all'inconsapevole sicurezza di cui la durata della vita ha finito per dotarlo, pronuncia senza esitare i nomi dei colori che chiama elementari e complementari, ma immediatamente si perde, perplesso, dubbioso, quando tenta di formare delle parole che possano servire da etichette o distici esplicativi di qualcosa che tocca l'ineffabile, di qualcosa che sfiora l'indicibile, quel colore non ancora del tutto nato che, con l'assenso, la complicità e non di rado la sorpresa degli stessi occhi, le mani e le dita vanno creando e che probabilmente non arriverà mai a ricevere il suo giusto nome. O forse già lo possiede, ma soltanto le mani lo conoscono, perché hanno composto la tinta come se stessero scomponendo le parti costitutive di una nota musicale, perché si sono sporcate nel suo colore e hanno serbato la macchia nel più profondo del derma, perché solo con quel sapere invisibile delle dita si potrà mai dipingere l'infinita tela dei sogni. Fidandosi di ciò che gli occhi hanno ritenuto di aver visto, il cervello della testa afferma che, secondo la luce e le ombre, il vento e la calma, l'umidità e la secchezza, la spiaggia è bianca, o gialla, o dorata, o grigia, o purpurea, o una cosa qualsiasi tra questo e quello, ma poi vengono le dita e, con un movimento di raccolta, come se stessero mietendo una messe, rialzano dal suolo tutti i colori che ci sono al mondo. Ciò che sembrava unico era plurale, ciò che è plurale lo sarà ancora di più. Non è men vero, tuttavia, che nell'esaltata folgorazione di un solo tono, o nella sua musicale modulazione, sono presenti e vivi tutti gli altri, tanto le tonalità dei colori che hanno già un nome quanto quelle di quei colori che ancora lo attendono, proprio come una distesa in apparenza liscia potrà coprire, nel mentre che le manifesta, le tracce di tutto il vissuto e accaduto nella storia del mondo. Tutta l'archeologia di materiali è un'archeologia umana. Ciò che questa creta nasconde e mostra è il transito dell'essere nel tempo e il suo passaggio negli spazi, i segni delle dita, i graffi delle unghie, le ceneri e i tizzoni dei fuochi spenti, le ossa proprie e altrui, i cammini che eternamente si biforcano e si vanno distanziando e perdendosi l'un l'altro. Questo granello che affiora alla superficie è una memoria, questa depressione il marchio che è rimasto di un corpo sdraiato. Il cervello ha domandato e chiesto, la mano ha risposto e fatto.

jose saramago