giovedì 11 giugno 2009

La forma della spada

Gli traversava il volto una cicatrice amara: un arco cinereo e quasi perfetto che lo sfregiava da una tempia fino all'altro zigomo. Il suo vero nome non importa; tutti a Tacuarembò lo chiamavano l'Inglese della Colorada. L'Inglese veniva dalla frontiera, da Rio Grande do Sul; alcuni assicuravano che in Brasile era stato contrabbandiere. I campi della Colorada erano pantanosi; le acque, amare; l'Inglese, per rimediare a queste deficienze, lavorò al pari dei suoi peoni. Dicono che fosse severo fino alla crudeltà, ma scrupolosamente giusto. Dicono anche che s'ubriacasse; un paio di volte all'anno si chiudeva in camera e ne emergeva dopo due o tre giorni come da una battaglia o da una vertigine, pallido, tremante, sgomento, e non meno autoritario di prima. Ricordo i suoi occhi glaciali, la sua energica magrezza, i suoi baffi grigi. Non frequentava nessuno; vero è che il suo spagnolo era rudimentale, misto di brasiliano. A parte qualche lettera
commerciale e qualche catalogo, non riceveva corrispondenza.

L'ultima volta che visitai i distretti del nord, una piena del torrente Caraguatà mi costrinse a pernottare alla Colorada. Dopo pochi minuti, credetti di notare che la mia presenza era importuna; cercai d’ingraziarmi l’Inglese; m’appigliai alla meno perspicace delle passioni: il patriottismo. Dissi che quando un paese è animato da uno spirito come quello che anima l’Inghilterra, questo paese è invincibile. Il mio interlocutore assentì, ma aggiunse, con un sorriso, che non era inglese. Era irlandese, di Dungervan. Detto questo s’arrestò, come se avesse rivelato un segreto. Dopo cena, uscimmo a guardare il cielo. Questo s'era schiarito, ma dietro le montagne del sud era rigato e incrinato da lampi, ordiva un'altra tempesta. Sulla veranda smantellata, il peone che aveva servito la cena ci portò una bottiglia di rum. Bevemmo a lungo, in silenzio.
Non so che ora fosse quando m'accorsi d'essere ubriaco; non so che ispirazione o che esaltazione o che tedio mi spingesse a chiedergli della cicatrice. Il volto dell'Inglese s'alterò; per qualche secondo pensai che stesse per buttarmi fuori.

Alla fine mi disse con la sua voce abituale:

- Le racconterò la storia della mia ferita a una condizione: a condizione di non attenuare alcun obbrobrio, alcuna circostanza infamante.
Assentii.
Ecco la storia che mi narrò, alternando l'inglese con lo spagnolo e anche col portoghese:

Nel 1922, in una delle cittadine del Connaught, io ero uno dei molti che cospiravano per l'indipendenza dell'Irlanda. Dei miei compagni sopravvissuti, alcuni si sono volti a lavori pacifici; altri, paradossalmente, si battono nei mari o nel deserto sotto i colori inglesi. Uno, il più valoroso, morì nel cortile d'una caserma, fucilato all'alba da uomini pieni di sonno; altri (non i più sfortunati) caddero nelle anonime e quasi segrete battaglie della guerra civile. Eravamo repubblicani, cattolici; eravamo - sospetto - romantici. L'Irlanda, per noi, non era solo l'utopico avvenire e l'intollerabile presente; era un'amara e affettuosa mitologia, era le torri
circolari e le rosse paludi, era il ripudio di Parnell e le immense epopee che cantano di tori rubati, tori che in un'altra incarnazione furono eroi e in altre pesci e montagne...
Una sera che non dimenticherò, giunse tra noi un affiliato di Munster: un certo John Vincent Moon.
Aveva appena vent'anni. Era magro e molle a un tempo; dava la spiacevole impressione d'essere
invertebrato. Aveva scorso con fervore e con vanità quasi tutte le pagine di non so quale manuale comunista; il materialismo dialettico gli serviva per tagliar corto a qualsiasi discussione. Le ragioni che può avere un uomo per abominarne un altro, o per amarlo, sono infinite: Moon riduceva la storia universale a un sordido conflitto economico. Affermava che la rivoluzione è destinata a trionfare. Gli dissi che a un gentleman non possono interessare che le cause perdute... Era già notte; continuammo a dissentire in corridoio, per le scale, poi nell'oscurità delle strade. I giudizi emessi da Moon m'impressionarono meno del suo inappellabile tono apodittico. Il nuovo compagno non discuteva: asseriva. E asseriva con sprezzo e con una certa collera.
Eravamo giunti alle ultime case, quando una brusca sparatoria ci assordò. (Poco prima avevamo
costeggiato il lungo muro cieco d'una fabbrica o d'una caserma). Voltammo per una strada di terra battuta; un soldato, enorme nel riverbero, sorse da una baracca incendiata. Ci gridò di fermarci. Io affrettai il passo; il mio compagno non mi seguì. Mi volsi: John Vincent Moon stava immobile, affascinato e come eternato dal terrore. Allora tornai indietro, atterrai con un colpo il soldato, scossi Vincent Moon, lo insultai e gli ordinai di seguirmi. Dovetti sostenerlo col braccio; la paura lo paralizzava. Fuggimmo, nella notte forata dagli incendi. Una scarica di fucileria ci raggiunse; una pallottola sfiorò la spalla destra di Moon; questi, mentre fuggivamo tra i pini, ruppe in un debole singhiozzo.
In quell'autunno del 1922 io m'ero rifugiato nella villa del generale Berkeley. Questi (che non avevo mai visto) ricopriva allora non so quale carica amministrativa nel Bengala; la casa aveva meno d'un secolo, ma era scalcinata e oscura e abbondava di perplessi corridoi e vane anticamere. Il primo piano era tutto occupato dal museo e dall'enorme biblioteca: libri incompatibili, antinomici, che in qualche modo sono la storia del secolo XIX; scimitarre di Nishapur, nei cui archi di cerchio sembrava durare il vento e la violenza delle
battaglie. Entrammo (mi sembra di ricordare) da un sotterraneo. Moon, con le labbra arse e tremanti, mormorò che i casi di quella notte erano stati interessanti; lo medicai, gli portai una tazza di tè; accertai che la sua «ferita» era superficiale. D'un tratto perplesso, balbettò:
– Ma lei s'è notevolmente arrischiato.
Gli dissi di non preoccuparsi. (L' abitudine della guerra civile m'aveva spinto ad agire come agii; inoltre, la cattura d'un solo affiliato poteva compromettere la nostra causa).
Il giorno dopo, Moon aveva recuperato il suo equilibrio. Accettò una sigaretta e mi sottopose a un severo interrogatorio su «le risorse economiche del nostro partito rivoluzionario». Le sue domande erano molto lucide; gli dissi (ed era vero) che la situazione era grave. Improvvise scariche di fucileria scossero il sud.
Dissi a Moon che i compagni ci aspettavano. Avevo lasciato il soprabito e la rivoltella in camera mia; quando tornai, trovai Moon steso sul sofà, con gli occhi chiusi. Pensava di avere la febbre; disse che una contrazione dolorosa gli immobilizzava la spalla.
Compresi allora che la sua codardia era irreparabile. Gli consigliai vagamente di riguardarsi e me ne andai. Quell'uomo impaurito mi faceva vergogna, come se il vigliacco fossi stato io, e non Vincent Moon. Ciò che fa un uomo, è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo. Forse Schopenhauer ha ragione: io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini, Shakespeare è in qualche modo il miserabile John Vincent Moon.
Nove giorni passammo nell'enorme casa del generale. Delle agonie e luci della guerra non dirò nulla: il mio proposito è di raccontare la storia di questa cicatrice che mi sfregia. Quei nove giorni, nella mia memoria, fanno un giorno solo, salvo il penultimo, quando i nostri irruppero in una caserma e potemmo fare esatta vendetta dei sedici compagni mitragliati a Elphin. Io scivolavo via di casa nel primo confuso chiarore dell'alba. Tornavo al cader della notte. Il mio compagno m'aspettava al primo piano: la ferita non gli permetteva di scendere al pianterreno. Lo ricordo con un libro di strategia tra le mani: F. N. Maude o Clausewitz. – L 'arma che preferisco è l'artiglieria, – mi confessò una notte. S'informava dei nostri piani; gli piaceva censurarli o riformarli. Anche soleva deplorare «la nostra lamentevole base economica»;
profetizzava, dogmatico e scuro in volto, la fine rovinosa. – C’est une affaire flambée, – mormorava. Per mostrare che gli era indifferente d'essere un codardo fisico, esagerava la propria superbia mentale. Passarono così, bene o male, nove giorni.
Il decimo, la città cadde definitivamente in potere dei Black and Tans. Alti cavalieri silenziosi
pattugliavano le strade; v'erano ceneri e fumo nel vento; a un angolo di strada vidi un cadavere: meno tenace, nel mio ricordo, d'un manichino sul quale i soldati interminabilmente s'esercitavano al tiro, in mezzo alla piazza... Io ero uscito all'alba, come al solito; ma tornai prima di mezzogiorno. Moon, in biblioteca, parlava con qualcuno; dal tono della voce compresi che parlava per telefono. Poi udii il mio nome; poi, che sarei tornato alle sette; poi, che avrebbero dovuto arrestarmi mentre attraversavo il giardino. Il mio ragionevole amico stava ragionevolmente vendendomi. Lo udii esigere delle garanzie di sicurezza personale.
Qui la mia storia si confonde e si perde. So che inseguii il delatore per neri corridoi d'incubo e alte scale di vertigine. Moon conosceva la casa molto bene, molto meglio di me. Una o due volte lo persi. Lo bloccai prima che i soldati mi fossero sopra. Da una delle panoplie del generale strappai una mezzaluna d'acciaio; con essa gl'impressi sul volto, per sempre, una mezzaluna di sangue.

Borges: a lei che è uno sconosciuto, ho fatto questa confessione. Il suo disprezzo non mi dorrà troppo.

Qui il narratore s'interruppe. Notai che gli tremavano le mani.

- E Moon ? - chiesi.

- Riscosse i denari di Giuda e fuggì in Brasile. Quella sera, sulla piazza, vide fucilare un manichino da soldati ubriachi.

Attesi invano la continuazione della storia. Alla fine gli dissi di continuare.

Allora un gemito l'attraversò; allora mi mostrò con debole dolcezza la curva cicatrice biancastra.
- Lei non mi crede? - balbettò. - Non vede che porto impresso sul volto il marchio della mia infamia? Le ho narrato la storia in questo modo perché lei l'ascoltasse fino alla fine. Io ho denunciato l'uomo che m'aveva protetto: io sono Vincent Moon.
Ora mi disprezzi.

da Luis Borges - Einaudi, 1955


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