sabato 14 novembre 2009
da castel sant'elmo
«Maestro, che dite? L’ora è quella giusta?». È molto dopo mezzanotte, ma lui non dice niente, non sembra contento. Da Castel Sant’Elmo ha guardato con un bizzarro sorriso giù, verso la città sprofondata nella notte.
Camminiamo in silenzio, calcando bene i piedi a terra per riscaldarli. Il Maestro è molto pallido, come se fosse malato, e parla con un filo di voce. «Ora comincerai a non riconoscere più né le strade né i luoghi. Saprai solo che scendiamo. Sei pronto?». «Sì» dico cercando di parlare a voce alta, ma mi esce appena un soffio, e rabbrividisco.
«Vedi quella finestra illuminata? Là c’è una famiglia che non dorme mai. Si odiano. La figlia rimprovera a sua madre di essere bella, più bella di lei. Il figlio torna tardi, e se gli dicono qualcosa urla e sbatte le porte, e dice che sono una famiglia di pidocchiosi e lui si vergogna di avere genitori così...». «E loro? Non possono fare qualcosa?». Il Maestro mi guarda, poi solleva le spalle. «Loro ripetono: ”Ma che ti abbiamo fatto? Hai sempre avuto tutto! E tu, Elsa, perché piangi sempre?”». Di notte quei genitori restano svegli fino a tardi, dice il Maestro, ma non parlano mai tra loro. Marito e moglie fingono di dormire, ma ognuno dei due si accorge che l’altro è sveglio. Al mattino si alzano stanchissimi, e al pensiero di un'altra giornata lei vorrebbe morire.
«Là invece abita un artista, in quel palazzo antico. Dalle sue finestre in certi giorni si vedono le isole». Stiamo scendendo, ma il Maestro aveva ragione: non riconosco più la città, come se una nebbia avesse eroso le facciate, allungato o accorciato le prospettive delle strade, le piazze, gli slarghi. «E l’artista lavora di notte?». «Sì, crede che così niente impedirà alle idee e alle visioni di arrivare a lui...» e il Maestro sorride, con una specie di smorfia. «Vuole descrivere la città, tutta la città, in alto e in basso... Dice che di notte, nel silenzio, le immagini che lo hanno assediato nei giorni e negli anni, si ricomporranno davanti a lui come in un quadro vivente... Le voci, i rumori, gli amori, le sgommate, i pianti, gli spari, la vita...». Ora il Maestro si è fermato, le mani in tasca, forse per riposare. «E ci riesce?». «A fare cosa?». «A descrivere la città così...». Il Maestro scuote la testa, malinconico. No, non ci riesce. Comincia sempre da capo a descrivere perché gli sembra che ogni volta manchi qualcosa, e al mattino distrugge tutto il lavoro. Ma che lavori è già raro. Più spesso sta lì, sveglio, e si limita a guardare dalla finestra, a sentire i piccoli rumori notturni, a fantasticare. «E al mattino che fa? Dorme?».
Il Maestro sembra non aver sentito, o non mi vuole rispondere. Allunga il passo, davanti a me, e solo ora mi accorgo che zoppica. Cammina svelto lo stesso, impeccabile nel suo paletot con il bavero sollevato, ma il lieve sobbalzare di una spalla rivela la menomazione. Mi coglie all’improvviso un sospetto che quasi mi fa ridere: e se fosse il diavolo? «Qui invece è l’inferno...». La sua voce mi fa sobbalzare. Che mi legga nel pensiero? Ma il Maestro indica un grande portone, e mi fa cenno di tacere e ascoltare. Non sento un rumore, una specie di frinire e borbottare che viene come da sottoterra? «È vero! Sembra il rumore di una fabbrica...». «È proprio quello. Lavorano di notte per le consegne. E poi perché il lavoro è lavoro, e non si può dire no». Sono anche donne, certo. La paga è bassa, ma sono soldi, e i soldi servono sempre. Ci sono i figli, bisogna mangiare ogni giorno, e i soldi servono pure per morire. «Ma è illegale! Non si può fare niente contro chi li sfrutta?». Non qui, dice il Maestro pronunciando appena le parole. E poi aggiunge, ma non sono sicuro di aver sentito bene: non in questo mondo. «Fare cosa? Se tu facessi qualcosa, quella gente finirebbe di lavorare. Ti odierebbero. Ti farebbero a pezzi». «Ma hanno quattro soldi!». «E tu gliene puoi dare di più?».
Il Maestro ora ha un tono di voce beffardo, odioso. Comincio anche a sentire freddo, e mi fanno male i piedi. Quanto detesto quel suo fatalismo! Ma già so che a ogni mia obiezione risponderebbe: ”Non sei venuto con me solo per vedere? Il patto che abbiamo fatto è questo. Solo vedere”. Ora si è fermato vicino a un falò semispento, e parla con le ragazze. Lo conoscono bene, e con loro trova sempre qualche parola che le fa sorridere, un tono di voce che le trasforma. Con lui vicino smettono di masticare le gomme e prendono l’aria di ragazzine, senza più rughe, senza stanchezza. Che storie racconterà? Perché è sempre così gentile con loro? A me non fanno caso, come se non esistessi, mentre si animano e ridono con lui, mostrando all’improvviso denti bianchissimi, facce che la nottata non ha sciupato. Quando le lasciamo lo abbracciano e baciano tutte, come si fa con un parente.
La sosta mi ha spezzato le gambe, mi fanno male le caviglie. Quanto avremo camminato? E dove siamo: a corso Vittorio Emanuele, a Ponticelli, a Chiaia, ai Quartieri, alla Doganella? Tutto somiglia alla città che conosco, ma come un corpo immerso nell’acqua o una faccia in uno specchio deformante. Il Maestro sta parlando, o forse sono solo io che sento la sua voce, appena ansante per l’andatura veloce? Sono stanco, e non ho più voglia di vedere niente. Ma la voce mi penetra fin dentro le ossa, come il freddo. Il tono è secco, ma la voce è appena udibile. «Ah, tu vuoi capire! Non è vero, tu non vuoi capire, tu vuoi giudicare... Ma così non vedrai mai nulla, e chi non vede non può neanche capire... Devi imparare ad accettare tutto, se ne sei capace. Non puoi? Non ci riesci? Apri gli occhi e guarda di nuovo, finché non cominci veramente a vedere... Amare tutto questo così com’è è impossibile? Può darsi... Ma allora resta a casa, nel sonno, davanti al televisore, non chiedere, non chiamarmi, non fingere di voler sapere...». Poi tace, con un gesto di impazienza.
Dove siamo? In una luce falsa che mi acceca vedo dei fagotti, grossi sacchi di cenci stesi uno di fianco all’altro, come salme di morti in guerra. Come somiglia a una stazione ferroviaria, questo posto! Le vetrate sporche, le travi che partono da terra come radici geometriche e sorreggono le volte, lo stridere dei freni sui binari: ma le salme? Hanno membra scure, forse sono vivi, si muovono. Si sono tolti le scarpe e dormono buttati sui cartoni. Ma sono davvero vivi o è la stanchezza che mi fa sembrare che si muovano? Una vecchia più in là sta seduta su un carrello portabagagli, la testa fra le mani, e parla da sola. Che starà dicendo? Il Maestro è l'unico che può saperlo, e mi volto per chiedere a lui. «Maestro...» dico, a bassa voce. Ma dietro di me non c’è, non lo vedo più. Una figura già lontana attraversa la piazza, passando veloce dal buio alle chiazze di luce dei lampioni. Zoppica leggermente e ha il bavero sollevato, o almeno così mi sembra. Mi bruciano gli occhi, e ho appena il tempo di chiuderli e poi riaprirli che non riesco più a scorgere la figura col bavero rialzato. Mi ha lasciato qui, in una città che non conosco, in compagnia dei morti. O sono solo addormentati e all’alba si risveglieranno? La notte si sta dissolvendo, e cresce un chiarore livido, mattutino. Maestro! Quanto devo aspettare per sapere?