Tu devi immaginare che la luce non viene ma va.
Se ne fugge proprio come un esercito in disarmo; scappa via. E’ questa la luce vera, che consegna ogni cosa al buio. Pensa a questo corpo di bimbo addormentato in un nero di pece: non è un ritratto lo vedi? No.
La posa, se guardi la posa, vedi benissimo che non dorme per niente, anzi. E’ messo lì così: come uno avrebbe messo le mele, le pere, l’uva, gli strumenti e i cesti per una natura morta. Non è un ritratto di un dormiente, ma è proprio una natura morta, dove il soggetto è un bambino.
Che dico? Non è il bambino il soggetto.
Il soggetto è il nero, che si sta mangiando l’amorino, le sue frecce, la faretra, le sue ali, e la luce? Beh, quella – come ti dicevo – scappa proprio come una donna che corre via dagli sgherri che la inseguono e si dilegua.
Qui la luce è dileguata come mia madre e mio padre.
Non so perché ti dico queste cose, ma ieri – il giorno dopo la mostra – ho avuto questa impressione che i miei genitori si dileguassero. Sparissero poco per volta come una brutta tela dipinta.
Mia madre ha ancora i segni dell’operazione e della sua malattia, è dimagrita tantissimo. La pelle non è più elastica come un tempo; c’è stato un momento breve ieri, quando il giorno tentava di finire e non avevamo ancora aperto la luce, che ho visto mia madre e il suo viso come nuovi per me e per quello che mi dicevano. Le rughe si sono fatte più pesanti e nette intorno agli occhi e nel viso e anche le mani gliel’ho viste rovinate e spurie, quasi non fossero più le sue, diverse da quelle che aveva tenuto intrecciate alle mie fino a qualche momento prima.
La luce andava via e mia madre spariva con lei e quello che mi consegnava, perché anche il buio, tu lo devi sapere, anzi tu lo sai benissimo, ci lascia qualcosa in cambio, era una pelle nuda e grinzosa, che faticavo a chiamare: mamma.
E così ho capito quel turbamento che mi aveva preso guardando la resurrezione di Lazzaro, e tu sai quale inquietudine mi provochi quell’episodio terribile e violento: il corpo morto di Lazzaro illuminato e tutto il nero intorno; sopra di lui sotto di lui, i visi degli altri ancora nella oscurità. E’ una luce grigia quella di Lazzaro, quella che emana il suo corpo, la luce medesima a quella di Milano sotto la neve, che si è dileguata subito, dico, la neve ed è rimasta una paciara grigiastra di acqua e pietrame, che sembrava il corpo di un morto.
Milano era il corpo di Lazzaro, la luce del miracolo è grigia, non è luminosa, tutti sono avvolti nel buio oppure in questo strato cellophanato di nebbia, acquerognola e nevischio.
Vorrei comunicare a te tutta la violenza visiva, che è in Caravaggio, perché tutto questo discorrerti addosso nasce dai suoi quadri, da questa opera che è un apprendimento dell’ombra, dello scuro e della violenza, ché la vita è una violenza continua, guarda l’incoronazione di spine o la cattura di Gesù per convincertene, e vorrei proprio mettertela davanti mia madre grigia come Lazzaro.
Una tonalità simile, lo stesso grigio marmoreo, l’avevo vista sulla carne appena aperta e richiusa dai medici del corpo di mio padre nudo, sotto una coperta, della nudità di un cuore che si ferma e poi riparte.
Ieri mio padre era sotto che spazzava le foglie cadute dal viso e faceva movimenti rapidi con la saggina in mano; era un freddo netto e pungente e poco prima l’avevo visto addormentato sul tavolo della cucina: un braccio allungato sul legno e la testa appoggiata sopra. Ho pensato al San Gerolamo, un’altra di quelle figure, di quelle immagini perturbanti per me, che mi rimandano ad altre cose tutte precise e nette, che non riesco a dirti, che dovrei ma che non escono, se non a folate inaspettate.
Il braccio allungato, la muscolatura ormai vecchia, ho pensato che mio padre addormentato continuasse il quadro. Anche Gerolamo, mi sono detto, si sarà addormentato così sullo scrittoio. E ho pensato a Caravaggio e a quanti vecchi morti avesse visto con le loro carni bianchicce e smunte, morte del tutto, e se ne avesse copiato nei suoi fogli con schizzi rapidi, la muscolatura, le grinze della pelle per poter dipingere il suo Gerolamo.
Mi sono fatto convinto che Gerolamo mi parli, in maniera misteriosa, di quello che sarebbe il mio essere scrittore, la motivazione più segreta per cui io scrivo, ed è strano che io ti dica questo dopo una mostra di quadri, ma credo che scrivere sia legato alla possibilità di portare via qualche resto dalla gola del leone. In questo quadro, in questo di Caravaggio, il leone non c’era, ma Gerolamo ha sempre un leone intorno; beh io credo che scrivere sia salvare dalla gola del leone qualcosa prima che venga del tutto sbranato, prima che ogni cosa venga ingoiata dal buio. C’è un senso, miserrimo quanto vuoi, in queste mie parole e nel fatto di dirmi scrittore, ed è questo: scrivo perché qualcosa si salvi. Perché nessuno muoia del tutto, perché ne rimanga almeno un resto mortificato ma presente.
*
- Seconda mossa, Napoli
Tu cammini con me in via dei Tribunali.
Saliamo lungo la strada, io ti indico le cose come se tu ci fossi, anche se forse stai in qualche contrada nebbiosa. Ti vedo che guardi le scatole delle scarpe, ma io ti porto in questa via stretta e famosa delle budella napoletane.
E’ sera e ci sono dei sacchi dell’immondizia davanti all’androne di un palazzo. Sentiamo squittire, ma uno squittio forte, che rimbomba, vediamo muoversi la plastica e un topo ci attraversa la strada. Ecco. Sobbalzi.
“E’ un topo…”
“Sì…”
“Ma era gigante come un gatto, o una bestia strana”
“Tu ce l’hai con gli animali fantastici”
“Sì…”
“E chissà quanti topi avrà visto Caravaggio passando di qua”
E mentre ti dico questo, ti dissolvi e sparisci, perché non sei qui.
Il Pio Monte di Pietà sta in via dei Tribunali. La mattina fa diversa la città: non ci sono né topi e né ombre. Entro, tu non sei. Non ho idea di quando ti farai rivedere, vado direttamente al quadro, che è nella cappella dell’altare maggiore. Penso a Caravaggio che ha dipinto questa opera, perché fosse posizionata proprio lì. Quindi lo guardo per bene e immagino i paramenti dei preti secenteschi, i vestiti, le funzioni. Rivedo lo sfarzo potente di chi s’ingegna di convincere sé e i fedeli ad accettare la morte.
Allora mi alzo e vado fino alla balaustra e ti mostro il quadro.
Partiamo dall’alto, vuoi?
Guarda i due angeli muscolosi, potenti. Sono angeli quelli? Dipinti così, in quel modo? Non si abbracciano (anche se la guida lo dice), no quei si stanno picchiando. Caravaggio sapeva cosa voleva dire la zuffa. Conosceva le mosse che fanno i corpi in quel momento, lui stesso era uno così. La misericordia è violenta: è sopruso, è rivolgimento. Vedo gli angeli e penso a Giacobbe che combatte. Come lo racconta la Bibbia?
Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.
Vedi? Per essere benedetti, salvati, graziati, bisogna alzare le mani e dare dei morsi, perché la misericordia è azione violenta. Ecco il nero da cui precipitano i due con la Madonna, che tiene stretto il dio bambino. Proprio come succede nei vicoli, quando ci si mena o si sentono gli spari, e allora le donne prendono il proprio figlio e lo tengono a sé come se la loro carne fosse indistruttibile, immarcescibile al male.
Le opere di pietà sono sei, ma Caravaggio ne aggiunge una, stravolgendo la norma. (Certe volte ripenso all’Amorino addormentato e mi dico che lui ha desiderato uccidere quel bambino solo per poterlo dipingere. Ma lasciamo perdere le mie fantasie da scrittore, ti voglio parlare di questo quadro, perché alla fine di tutto c’è una cosa che ti riguarda, ma devi starmi a sentire).
Le opere di pietà, secondo il vangelo di Matteo, sono sei: visitare i carcerati, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, curare gli infermi, dar da bere agli assetati, ospitare i pellegrini. A queste il pittore ne aggiunge una, la settima: seppellire i morti.
Sul fondo del quadro vedi due personaggi, uno con una candela e l’altro che trascina qualcosa. Se osservi bene vedi che è un morto. Scorgi i piedi, ma immagini tutto: la schiena striscia per terra, le braccia che vanno dietro e il capo a seguire i sobbalzi del selciato. Il corpo è filiforme, l’uomo è morto di inedia (i libri di storia ti raccontano che nel seicento Napoli fu decimata da carestie).
Le gambe sono magrissime, si vedono le ossa e lo sterno mostra l’arpa delle costole, che sembra suonino. Mentre ti descrivo questa scena, mi rendo conto di riscrivere Se questo è un uomo. La pagina finale, dove Primo e un suo compagno stanno riversando sulla neve la cosa Somogiy. La cosa Somogiy era un uomo, che è diventato un pezzo, magro, vuoto, grigio. E ora viene lasciato sulla neve. Vedi cosa è la misericordia? Trascinare una povera cosa, un fagotto di niente sulla terra per lasciarlo lì oppure per tumularlo con altri cento in una fossa comune.
Me lo vedo il tipo che, sacramentando con dio e parlando con l’altro, che gli regge la candela, tira il cadavere.
Uno dice all’altro: Se li seppelliamo tutti nella stessa fossa, come farà dio a riconoscerli
L’altro: Dio è potente saprà lui come.
Uno: sicuro? Se è così forte, perché allora non ci dà da mangiare?
L’altro: Che ne sai tu di dio? Che se lui vuole prende tutte le ossa e le fa risorgere.
Uno: Io dico solo che questo morto mi sembra uguale all’altro che ho portato un’ora fa. E tra qualche anno questo po’ di carne non ci sarà e saranno solo ossa. Neppure dio può distinguere…
L’altro: Dio può…
Uno: Anche il male?
L’altro: Se vuole sì anche il male. Se dio è tutto, è anche il male.
Il quadro in primo piano ha un corpo, una schiena nuda, che cattura l’attenzione di chi guarda: è l’ignudo che un giovane cavaliere, San Martino, riveste. Mentre vedo la precisione dei muscoli mi dico che quest’opera è tutta pregna di cose di questo mondo che non sono di questo mondo.
Davanti a noi abbiamo un uomo nudo dipinto nell’atto di rialzarsi. Forse è uno dei tanti amati dal pittore, forse è il tuo fidanzato, forse sono io che mi alzo dal letto. E’ l’uomo dopo che ha fatto l’amore. Il corpo, che ne ha posseduto un altro, si alza per lavarsi e per andare al bagno.
Sarà capitato a te, come a me e non dubito che sia successo a Caravaggio, ma lui lo trasforma, lo reinventa.
Amare, fare sesso sono modi diversi di sublimare la nostra voglia di morire. Finito l’amore, ci alziamo, come risorgendo. Quello non è un semplice ignudo, un povero, ma rappresenta il corpo risorto, le ossa esenti dalla morte.
Il quadro è tutto così: prendere il quotidiano, quello che il pittore poteva vedere negli anfratti di Napoli, e trasformarlo in una cosa più potente. Ed è questo poi il motivo segreto del perché scriviamo parole su parole.
In un certo senso io scrivo di te per farti del male e nel fartelo ti salvo e mi salvo. Quella schiena nuda, dopo l’amore dopo la morte, è simbolo di tutto questo. Caravaggio ha dipinto con la stessa rabbia con cui ha ucciso e io ora ci sto mettendo la medesima ferocia.
C’è un’immagine, l’ultima che cattura la mia attenzione.
Sulla destra c’è un vecchio incarcerato. Vicino a lui una giovane donna che gli porge il seno. Se guardi bene, sul grigio della barba vedi alcune macchie bianche. Sono gocce di latte che gli scivolano nell’atto della suzione. Con quest’immagine, il pittore rappresenta due diverse opere di pietà: visitare i carcerati e dare da mangiare agli affamati. E lo fa rappresentando la storia di Cimmone e di sua figlia Pero. Cimmone fu condannato a morte per fame in carcere, ma sua figlia ogni giorno andava a nutrirlo con il latte del suo seno.
Mentre guardavo questa immagine ti sei fatta in me di nuovo. Eri lì e ti ho fatto vedere il seno della donna, il suo guardarsi intorno perché non arrivi nessuno, il volto del vecchio e la sua fame vorace.
Ho sempre amato i quadri in cui la Madonna è ritratta con il seno scoperto che nutre dio bambino. Mi sembra l’unico momento pacifico del “farsi carne”. Cosa avrà provato Maria quando dio le succhiava il seno? Paura, timore? O forse niente, ma in quel momento erano solo madre e figlio, senza abissi siderali a dividerli.
Ho pensato a te e al tuo seno in quel momento e avrei voluto bere il tuo latte.
Ho immaginato che qualcuno ti avesse meritata e che fossi madre di un bimbo. Allora ti avrei chiesto di bere, l’avrei fatto come Cimmone e dio stesso, prendendo il capezzolo in bocca e dandoti piccoli strappi, leggeri.
All’inizio ti avrebbe fatto male, ma poi avresti solo detto: ti nutro.
E infine avremmo riso di quel po’ di gocce che cadendo avrebbero macchiato la maglietta, l’unica misera grazia.
di Demetrio Paolin