martedì 9 novembre 2010

del non avere la testa



Il giorno più bello della mia vita - il giorno della mia seconda nascita per così dire - fu quando scoprii che. non avevo la testa.
Questa non è una trovata letteraria, una spiritosaggine per destare interesse a ogni costo. Lo dico con la massima serietà: io non ho la testa.
Feci questa scoperta diciotto anni fa, quando avevo trentatré anni. La cosa, certo, successe di punto in bianco, e tuttavia venne in risposta ad una ricerca incalzante; da molti mesi una domanda mi assorbiva completamente: che cosa sono io? Il fatto che a quel tempo stessi percorrendo a piedi la regione dell'Himalaya probabilmente aveva poco a che fare con la faccenda, per quanto dicano che in quella contrada sia più facile che insorgano stati mentali insoliti.
Comunque sia, una giornata calmis sima e limpida e la vista, dalla cima su cui mi trovavo, di brumose vallate azzurre che si stendevano fino alla catena montuosa più alta del mondo, col Kanchenjunga e l'Everest quasi sperduti fra i picchi inneva ti, formavano uno scenarioo degno della visione più grandiosa.
Ciò che accadde in realtà fu qualcosa di assurdamente semplice e ordinario: smisi di pensare.
M'invase una quiete curiosa, una strana fiacchezza o intorpidimento vigile. La ragione, l'immaginazione e tutto il chiacchierio mentale tacquero. Per una volta, mi mancarono davvero le parole. Passato e futuro scivolarono via. Dimenticai chi e che cos'ero, il mio nome, la mia umanità, la mia animalità, tutto ciò che poteva dirsi mio. Fu come se fossi venuto al mondo in quell'istante, nuovo di zecca, privo di mente, innocente di ogni ricordo.
Esisteva solo l'Ora, il momen to presente e ciò che era chiaramente dato in esso. Mi bastava guardare. E scoprii un paio di pantaloni color cachi che finivano in basso in un paio di scarpe marrone, maniche color cachi che finivano ai lati in un paio di mani rosee e il davanti di una camicia color cachi che in alto finiva in... nulla, assolutamente nulla! Certamente non in una testa.
Non ci misi neanche un attimo per accorgermi che quell nulla, quel buco dove avrebbe dovuto trovarsi una testa, non era una vacuità ordinaria, un semplice niente: al contrario, era tutto occupato.
Era un ampio vuoto largamente riempito, un nulla che trovava posto per tutto; posto per 1'erba,.gli alberi, le lontane colline ombrose, e lassù, sopra di loro, i picchi innevati, come una fila di nubi spigolose in corsa nel cielo azzurro.
Avevo perduto una testa e acquistato un mondo.
Fu un'esperienza che mi lasciò letteralmente senza fiato: mi parve di smettere affatto di respirare, assorbito com'ero nel Dato.
Era lì, quella scena superba, scintillante nell'aria limpida, sola e senza alcun sostegno, misteriosamente sospesa nel vuoto e (questo era il vero miraco lo, la meraviglia e la gioia) assolutamente libera da "me", vergine d’ogni osservatore. La sua totale presenza era la mia totale assenza, corpo e anima.
Più leggero dell'aria, più trasparente del vetro, comple Innu•nte affrancato da me stesso, io non ero più in nessun luogo.
Pure, nonostante il suo carattere magico e arcano, questa visione non fu un sogno o una rivelazione esoterica. Anzi, fu come un improvviso risveglio dal sonno della vita ordinaria, come la fine di un sogno. Era la realtà che splendeva di luce propria, sgombra una volta tanto della mente che tutto oscura.
Era, finalmente, la rivelazione del perfettamen te evidente. Era un momento di lucidità nella storia confusa di una vita. Era un cessare di ignorare qualcosa che (almeno fin dalla più tenera infanzia) non avevo mai visto perché troppo indaffarato o troppo intelli gente. Era un'attenzione nuda e acritica verso ciò che da sempre avevo avuto faccia a faccia - la mia totale assenza di faccia.
In breve, tutto era perfettamente semplice, facile e immediato, al di là del ragionamento, del pensiero e delle parole. Non sorsero domande, non vi furono richia mi al di là dell'esperienza stessa, solo la pace e una letizia tranquilla e la sensazione di essermi liberato da un fardello intollerabile.
Quando la prima meraviglia per la mia scoperta himalayana si fu un po' attenuata, cominciai a descriverla a me stesso più o meno in questi termini.
In un qualche modo; m'ero vagamente figurato me stesso come l'abitatore di questa dimora che è il mio corpo, intento a osservare il mondo attraverso le sue due finestre rotonde. Ora capisco che non è affatto così.
In questo momento, mentre stendo lo sguardo in lontanan za, che cosa c'è che mi dice quanti occhi ho qui: due, tre, cento o nessuno? In realtà su questo lato della mia facciata appare una sola finestra, spalancata e senza telaio, alla quale non è affacciato nessuno. E’ sempre l'altra persona che ha occhi e un viso che li inquadra, mai questa persona.
Esistono allora due tipi – due specie diversissime – di uomo. Il primo, di cui osservo innumerevoli esemplari, porta sulle spalle con tutta evidenza una testa (e per "testa" intendo una palla pelosa del diametro di una ventina di centimetri e con varie aperture), mentre il secondo, di cui osservo un solo esemplare, con tutta evidenza non porta sulle spalle nulla del genere. E finora avevo trascurato questa differenza così notevole! Vittima di un accesso prolungato di pazzia, di un'alluci nazione che durava da tutta la vita (e per "allucinazione" intendo ciò che dice il mio dizionario: percezione apparente di un oggetto non realmente presente), mi ero invariabilmente visto tutto sommato uguale agli altri uomini, e certo mai come un bipede decapitato ma sempre vivo.
Ero stato cieco di fronte all'unica cosa che è sempre presente e senza la quale sono davvero cieco, di fronte a questo meraviglioso sostituto della testa, a questa chiarità sconfinata, a questo vuoto luminoso e assolutamente puro, che tuttavia - più che contenere - è tutte le cose. Infatti, per quanto concentri tutta la mia attenzione, non riesco a trovare niente, qui, neanche uno schermo bianco in cui siano proiettate queste monta gne e il sole e il cielo, o uno specchio terso in cui essi siano riflessi, o una lente trasparente o una fessura attraverso cui vengano visti; e tanto meno un'anima o una mente a cui siano offerti, o un vedente (per quanto nebuloso) che sia distinguibile dalla veduta. Non si frappone nulla di nulla, neppure quell'ostacolo sconcertante ed elusivo chiamato "distanza": l'immehso cielo azzurro, il biancore orlato di rosa delle nevi, il verde scintillante dell'erba - come possono essere remote queste cose se non c'è nulla da cui essere remoto? Questo vuoto senza testa, che è qui, rifiuta ogni definizione e ubicazione: non è rotondo, non è piccolo, non è grande e non è neppure qui invece che laggiù.
(E anche se qui ci fosse una testa dalla quale misurare le distanze, un'asta che andasse di qui alla cima dell'Everest diventerebbe, se vista dalla sua estremità - e per me non esiste altro modo di vederla - un punto, un niente). In realtà queste forme colorate si presentano in tutta semplicità, senza alcuna complicazione come vicino o lontano, questo o quello, mio o non mio, visto da me o semplicemente dato. Ogni binarietà - ogni dualità di soggetto e oggetto - è svanita: non viene più inserita in una situazione che non ha posto per essa. `
Di questo tenore erano i pensieri che seguirono la visione. Tentare di mettere per iscritto l'esperienza immediata, di prima mano, in questi o in altri termini, tuttavia, sígnífica darne una rappresentazione distorta complicando ciò che è semplicissimo: anzi, più la si anatomizza, più ci si allontana dall'originale vivente. Nel migliore dei casi queste descrizioni possono ricordarci la visione (ma senza la sua fulgida consapevolezza) o invitarne una ripetizione; ma non possono trasmettere la sua qualità essenziale o assicurarne una ripetizione più di quanto il menu più appetitoso possa avere il sapore del pranzo, o il miglior libro sull'umori­smo possa far capire il sale di una barzelletta. D'altra parte, è impossibi le smettere di pensare per lungo tempo, ed è inevitabile fare qualche tentativo per collegare gli intervalli di lucidità della vita col suo sfondo confuso. Indirettamente, ciò potrebbe anche stimolare la ricomparsa della lucidità.

D.E. Harding