venerdì 18 marzo 2011

Tra gli anni 70 e 80 ci furono grandi cambiamenti politici, di costume, di linguaggio e del teatro.
Teatro della crisi. Crisi di valori, di ideologie, di linguaggio. Ma anche crisi del teatro di testo, con la convinzione che nulla può essere scritto, ma che si può soltanto riscrivere e reinventare la parola.
Un ansia che è comune in tutta Europa: riciclare dentro storie del presente materiali già noti, rileggere tragedie alla luce del presente, distruggere i miti, destrutturare trame e personaggi.
Il tutto con un linguaggio nuovo, spesso dialettale. Ma di un dialetto non in forma di tradizione ma di sperimentazione sul piano della scrittura.
Carlo Cecchi, Pasolini, Asor Rosa, avevano già posto il problema della lingua italiana nel teatro e della sua accademizzazione e improponibilità.
E qui entra in scena quella che viene definita Nuova Drammaturgia Napoletana (rispetto alla letteratura o al cinema, il teatro napoletano ha sempre costituito un sistema autonomo con un dialetto costruito come lingua e una propria tradizione rispetto allo scenario nazionale) ovvero un proliferare di copioni allestimenti produzioni di rilievo e premi nazionali di giovanissimi autori napoletani: fra tutti Enzo Moscato, Annibale Ruccello e Manlio Santanelli.
L'affermarsi di questo processo trova davanti a se numerosi ostacoli: difficile penetrare nel giro delle produzioni importanti, farsi notare dalla stampa nazionale, entrare nei teatri 'grandi' (Isa Danieli dirà: i nuovi testi vengono presi facilmente nei teatri alternativi, ma con poco successo di pubblico a meno di scandali, impossibile invece entrare nei teatri stabili e nel circuito ETI).
Fino ai primi premi, ai primi articoli sulla stampa locale e nazionale, che faranno emergere una realtà nuova, capace da un lato di dare ossigeno a un repertorio ormai logoro e ripetitivo, sempre più condizionato da esigenze commerciali, e che aveva esaltato solo il folklore del periodo eduardiano creando scarpettismi ed eduardismi di basso livello, dall'altra di superare la crisi delle varie forme di teatro sperimentale.
Un sintomo di questa ritrovata vitalità del teatro napoletano si può riconoscere nella riscoperta dei testi di Raffaele Viviani, riemerso dopo decenni di silenzio come d'incanto negli ultimi 20 anni, oggi massicciamente rappresentato e diventato oggetto di numerose conferenze universitarie.
Oltre a ritrovare la migliore tradizione, emergono negli stessi anni giovani autori anche nel cinema come Mario Martone (ricordiamo Morte di un matematico napoletano, o la regia de I dieci comandamenti di Viviani ai Ventaglieri di Napoli).
Questa crisi del teatro è ovviamente nazionale se non internazionale, non certo soltanto napoletana.
Una rivolta contro il teatro ufficiale, contro la drammaturgia occidentale, contro la parola. Tornano temi di avanguardia sull'immagine il corpo e il suono (emergono Ionesco, il teatro dell'Assurdo, si leggono Pinter, Genet, si rileggono 'dissacrandoli' i classici, ecc..)
Non tutto in questa 'rivolta' ha finito per distruggere il Teatro tanto contestato, spesso riuscendo soltanto a svecchiare senza cambiare i fondamenti. Oggi infatti, concluso anche questo ciclo ri-vitalizzante, gran parte del teatro di ricerca è assunto a 'genere', con i suoi gruppi noti e il suo mercato, e tutto è rientrato ed assimilato (con le dovute eccezioni).
C'è poi un filone che rivaluta il teatro di parola, riportando l'accento sull'individuo, nelle sue relazioni segrete, spesso al limite del patologico, nella dissoluzione della persona, nella perdita del suo bagaglio linguistico, in un umanità divorata dalla catastrofe della massificazione e dal consumo, senza salvezza.
In tale contesto – il ritorno alla parola ed al dramma dopo gli anni di sperimentazione – si intuisce l'importanza della nuova drammaturgia napoletana, che a quell'idea di teatro del malessere sembra appartenere per natura: il peso di una tradizione ormai troppo lontana, il degrado della città, la trasformazione culturale-antropologica.
Una ricchezza quella del teatro napoletano nei secoli, che va osservata come naturale espressione di un luogo caotico, soggetto nel tempo ad un malinteso senso di orgoglio territoriale che ne ha fatto la patria del sentimentalismo, della tuttora purtroppo fiorente 'napoletanità'.
Le opere di Ruccello, Moscato, Santanelli, affondano le loro radici non in luoghi solari classici dell'immaginaria cartolina napoletana, ma in zone d'ombra, scure, da romanzo noir.
Riprendono i classici certo, ma secondo una linea di tradimento e trasgressione, anticonsolatoria, che restituisce il dolore e il degrado, il senso collettivo e la perdita di sogno, l'angoscia che sottintende al quotidiano della città.
Se la struttura drammaturgica è la classica (trama intreccio, psicologia dei personaggi, dialoghi, atti e quadri), le vicende sono invece degenerate nel contenuto e nel linguaggio, e i personaggi deformi ancora affascinati dalla propria città sono apostoli di corruzione e rovina.
Al degradarsi di quel popolo corrisponde il deterioramento teatrale.
I testi parlano quindi una lingua più vera, che evoca i fantasmi di un popolo soggetto a tremende mutazioni.
Se già Roberto De Simone si era cimentato nel recupero della tradizione (e Annibale Ruccello aveva partecipato alle sue ricerche), questi nuovi autori indagano la metropoli, la periferia e la sottrazione selvaggia delle tradizioni e del linguaggio.
Devianza, omosessualità, sacro e profano, estasi e delitto, sangue e veleno...tratti tipici degli studi antropologici del Sud Italia, ma espressi con un linguaggio del tutto contaminato: napoletano arcaico e napoletano nuovo misto a termini dei mass media, polilinguismo con ascendenze letterarie, impennate di barocco degradato, ma un dialetto napoletano imbarbarito e imbastardito, complesso suddito e ribelle, periferico e oroglioso.

Di questo scenario Ferdinando è sicuramente il testo di maggior successo, soprattutto postumo, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Isa Danieli e alla sua volontà di portare il testo alla ribalta.
1870, nove anni dopo la caduta del Regno delle due Sicilie, villa di campagna del vesuviano dove la baronessa Donna Clotilde Lucanegro trascorre le giornate a letto fra preghiere letture di letteratura meridionale e medicine, rifiutandosi dopo il tramonto dello splendore borbonico di compromettersi alla nuova Italia, alla sua lingua alla sua religione. Accanto a se la cugina Gesualda, giovane zitella subordinata alla baronessa. Frequentatore quotidiano della villa è Don Catellino, prete di famiglia meschino e perverso, tormentato dal furore di amori inconfessabili.
In questo scenario piomba Ferdinando, giovane e sconosciuto nipote della baronessa, che con la sua bellezza e la sua ambiguità getterà scompiglio nella vita dei personaggi, seducendo Clotilde, Gesualda e DonCatellino, per un tranello a fini economici.
Il vizio come verità di anime ammalate che si alimentano nella degradazione della carne, delirio di sensi che costringe i personaggi a sbranarsi a vicenda in una vita già depredata. Un eros privo di speranza, cupo violento, il cui approdo possibile è sempre e comunque la morte.
Il prete fa confusione fra eresia e profanazione, il desiderio soppresso di Clotilde nella finta malattia, l'angoscia di Gesualda. Un universo segreto che travolge la banalità del quotidiano.
In tutto questo i richiami storici sono tantissimi: Reppone, Trinchera, Perrucci, Lucanigro, e ovviamente la metafora Ferdinando/Filiberto.
L'ironia dei nomi ripropone la vecchia ferita fra i piemontesi invasori e i Borbone di Napoli, la lacerazione fra nord e sud, la decadenza di una classe e di una tradizione, con l'incalzare di una generazione senza storia, sullo sfondo di una città allo sbando, in disfacimento.
In questo confuso 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia, fra nostalgie borboniche, patriottismi, nazionalismi, e federalismi, forse Ferdinando può aprire una discussione sulla cultura del Sud, se esiste ancora, in che relazione sta con le espressioni nazionali, che forme particolari si producono e di che valore.
Oltre a denunciare la crisi del passaggio storico, della mancata unificazione reale, vi è l'espressione di una cultura dove le parole hanno ancora un senso.
E in questo forse l'influenza del pensiero di Eduardo sulla 'Parola' è notevole.
Abbandono del comico, costruzione di un falso metaforico, l'odio per le generazioni cresciute all'ombra del potere piemontese, l'orgoglio della lingua, lo spessore culturale.
Ruccello nei suoi testi andava a toccare quasi sempre figure femminili invasate, madri padrone, figlie incinte suicide, massaie in preda alla follia, tristi insegnanti maniache, melodrammatici transessuali che agonizzavano sulle note di Patty Pravo e Mina, in un apparente normalità quotidiana che poi rivelerà invece le passione represse, i sentimenti, l'irrazionale, l'umore nero.
Ruccello le definiva 'deportate'.
Quello che già Pier Paolo Pasolini nel '74 aveva chiamato il genocidio culturale: “ritengo cioè che la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Un vero e proprio genocidio”.
La società del consumo, la società di massa delle grandi città, l'alfabetizzazione, l'informazione e la televisione, l'imbastardimento del dialetto, hanno distrutto le varie forme particolari culturali, uniformando e appiattendo ogni espressività.
Attorno a questo mondo nascono le fasce estromesse, sradicate, esistenze complesse che questo teatro della crisi andrà ad indagare.




- bibliografia di riferimento:
Dopo Eduardo – nuova drammaturgia a Napoli – Luciana Libero Guida Editore
Il rito, l'esilio e la peste – percorsi nel nuovo teatro napoletano – Enrico Fiore Ubu Libri
Teatro – Annibale Ruccello – Guida editore
Scritti inediti – Annibale Ruccello – Gremese Editore
L'angelico bestiario – Enzo Moscato - Ubulibri