lunedì 4 aprile 2011

Studio di Cioran #1

Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze, all'esacerbarsi del nostro squilibrio.
Non c'è opera che non si ritorca contro l'autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l'avvenimento l'uomo d'azione.
devo liquidarne il minimo residuo che mi rimanga; e se, al contrario, mi avventuro in un ruolo storico, il compito che mi spetta sarà quello di esasperare le mie facoltà fino a esplodere con esse. Si perisce sempre a causa dell'io che si assume: portare un nome è rivendicare un modo esatto di crollare.
Maestri nell'arte del pensare contro se stessi, Nietzsche, Baudelaire e Dostoevskij ci hanno insegnato a puntare sui nostri pericoli, ad ampliare la sfera dei nostri mali, ad acquistare esistenza separandoci dal nostro essere. E ciò che per il grande cinese era simbolo di decadimento, esercizio di imperfezione, per noi costituisce l'unica modalità di possederci, di entrare in contatto con noi stessi.
La liberazione, se realmente ci sta a cuore, deve procedere da noi stessi: a nulla serve cercarla altrove, in un sistema già fatto o in qualche dottrina orientale.
Ma non significa nulla parlare di affrancamento a proposito di una umanità frettolosa, dimentica del fatto che non possiamo riconquistare la vita né goderne senza prima averla abolita.
Noi respiriamo troppo velocemente per poter cogliere le cose in se stesse o denunciarne la fragilità. Il nostro ansimare le postula e le deforma, le crea e le sfigura, e ad esse ci incatena. Mi agito, emetto così un mondo altrettanto sospetto della speculazione con cui lo giustifico, aderisco al movimento, il quale mi trasforma in generatore di essere, in artigiano di finzioni, mentre il mio brio cosmogonico mi fa dimenticare che, trascinato dal turbine degli atti, non sono altro se non un complice del tempo, un emissario di universi caduchi.
Ingozzati di sensazioni e del loro corollario - il divenire - siamo dei non-liberati per inclinazione e per principio, dei condannati di prim'ordine che, in preda alla febbre del visibile, frugano in quegli enigmi di superficie, ben degni della nostra trepidazione e del nostro sfinimento.
Se vogliamo recuperare la nostra libertà, ci converrà deporre il fardello della sensazione, non reagire più al mondo attraverso i sensi, rompere i legami.
Contaminati dalla superstizione dell'atto, crediamo che le nostre idee debbano "giungere a uno scopo".
«D'ora in poi non vi sarà più tempo», quel metafisico improvvisato che è l'Angelo dell'Apocalisse annuncia così la fine del Diavolo, la fine della storia. I mistici hanno dunque ragione nel cercare Dio in se stessi o altrove, fuorché in questo mondo di cui fanno tabula rasa, senza per questo abbassarsi alla rivolta. I mistici si lanciano fuori del secolo: follia di cui noi, prigionieri della durata, siamo raramente capaci. Se almeno fossimo tanto degni del Diavolo quanto loro lo sono di Dio!
Ce l'ho col nostro secolo per averci soggiogati fino al punto di ossessionarci anche quando ce ne distacchiamo. Nulla di valido può nascere da una meditazione di circostanza, da una riflessione sull'avvenimento. In altri tempi più felici, gli animi potevano sragionare liberamente, quasi non appartenessero a nessuna epoca, emancipati com'erano dal terrore della cronologia, inabissati in un momento del mondo che, per essi, si confondeva con il mondo stesso. Senza curarsi della relatività della loro opera, vi si consacravano interamente. Geniale sciocchezza per sempre scomparsa, esaltazione feconda, per nulla compromessa dalla coscienza dilacerata.
Poiché l'assoluto corrisponde a un senso che non abbiamo saputo coltivare, abbandoniamoci a tutte le ribellioni: finiranno certo per ritorcersi contro se stesse, contro noi stessi... Forse allora riconquisteremo la nostra supremazia sul tempo; a meno che, tutt'al contrario, nel sottrarci alla calamità della coscienza, non raggiungiamo le bestie, le piante e gli oggetti, e quella stupidità primordiale di cui, per colpa della storia, abbiamo perso finanche il ricordo.