martedì 31 agosto 2010
mercoledì 18 agosto 2010
venerdì 6 agosto 2010
Guarda, non chiedo molto,
solamente la tua mano, tenerla
come una piccola rana che così dorme contenta.
Io ho bisogno di questa porta che aprivi
perché vi entrassi, nel tuo mondo, questo pezzetto
di zucchero verde, di tonda allegria.
Non mi presti la mano questa notte?
Tu, per ragioni tecniche, non puoi. Allora
io la tesso nell’aria, ordendo ogni dito,
e la pesca setosa della palma
e il dorso, questo paese d’alberi azzurri.
Così la prendo così la sostengo, come
se da ciò dipendesse
moltissimo del mondo,
il succedersi delle stagioni,
il canto dei galli, l’amore degli uomini.
____Julio Cortàzar_____
solamente la tua mano, tenerla
come una piccola rana che così dorme contenta.
Io ho bisogno di questa porta che aprivi
perché vi entrassi, nel tuo mondo, questo pezzetto
di zucchero verde, di tonda allegria.
Non mi presti la mano questa notte?
Tu, per ragioni tecniche, non puoi. Allora
io la tesso nell’aria, ordendo ogni dito,
e la pesca setosa della palma
e il dorso, questo paese d’alberi azzurri.
Così la prendo così la sostengo, come
se da ciò dipendesse
moltissimo del mondo,
il succedersi delle stagioni,
il canto dei galli, l’amore degli uomini.
____Julio Cortàzar_____

giovedì 5 agosto 2010
Dos gardenias para tí
Con ellas quiero decir:
Te quiero, te adoro, mi vida
Ponle toda tu atención
Proque son tu corazón y el mío.
Dos gardenias para tí
Que tendrán todo el calor de uns beso
De esos besos que te dí
Y que jamás encontrarás
En el calor de otro querer.
A tu lado vivirán y se hablarán
Como cuando estás conmigo
Y hasta creerás que te dirán:
Te quiero.
Pero si un atardecer
Les gardenias de mi amor se mueren
Es porque han adivinado
Que tu amor me ha traicionado
Porque existe otro querer.
Con ellas quiero decir:
Te quiero, te adoro, mi vida
Ponle toda tu atención
Proque son tu corazón y el mío.
Dos gardenias para tí
Que tendrán todo el calor de uns beso
De esos besos que te dí
Y que jamás encontrarás
En el calor de otro querer.
A tu lado vivirán y se hablarán
Como cuando estás conmigo
Y hasta creerás que te dirán:
Te quiero.
Pero si un atardecer
Les gardenias de mi amor se mueren
Es porque han adivinado
Que tu amor me ha traicionado
Porque existe otro querer.

sabato 31 luglio 2010
corsaro75
Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendosi laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Sono saltate fuori le vecchie facce da preti, da giudici, da ufficiali, da anarchici fasulli, da impiegati buffoni, da Azzeccagarbugli, da Don Ferrante, da mercenari, da imbroglioni, da benpensanti teppisti. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri - che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente - alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l'isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora, solo attraverso tale rapporto dialettico - sia pur drammatico ed estremizzato - essi avrebbero potuto avere reale coscienza storica di sé, e andare avanti, «superare» i padri. Invece l'isolamento in cui si sono chiusi - come in un mondo a parte, in un ghetto riservato alla gioventù - li ha tenuti fermi alla loro insopprimibile realtà storica: e ciò ha implicato - fatalmente - un regresso. Essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre.
Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.
Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all'ordine degradante dell'orda.
ppp
Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.
Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi, una vera e propria disperazione): ma ormai migliaia e centinaia di migliaia di facce di giovani italiani, assomigliano sempre più alla faccia di Merlino. La loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all'ordine degradante dell'orda.
ppp
sabato 24 luglio 2010
il disordine perfetto

Nel giovedì santo del 1770 a Roma il quattordicenne Mozart dà una straordinaria prova del suo genio: ascolta nella Cappella Sistina il Miserere di Gregorio Allegri e riesce nell'impresa di trascriverlo interamente a memoria dopo solo due ascolti. Si tratta di una composizione a nove voci, apprezzata a tal punto da essere proprietà esclusiva della Cappella pontificia, tanto da poter essere eseguito solo nella Cappella sistina durante la settimana santa e ritenuta così imporante da intimare la scomunica a chi se ne fosse impossessato al di fuori delle mura vaticane. L'impresa ha i caratteri dello sbalorditivo, se si pensa all'età del giovanissimo compositore e alla incredibile capacità mnemonica nel ricordare un brano che riassume nel proprio finale ben nove parti vocali.
Dopo tale impresa i salisburghesi si recarono a Napoli, dove soggiornarono per sei settimane e dove la proverbiale scaramanzia partenopea additava all'anello che portava il compositore al dito la genesi delle sue incredibili capacità musicali, tanto da costringerlo a toglierselo.
venerdì 23 luglio 2010
- natale 1993 -
ruppemi l'alto sonno nella testa
un lieve suono sentì e mi riscossi
lasciando il torpore del caldo letto
l'occhio riposato intorno mossi
dritto levato e fisso mi guardai per capir la cagion del mio risveglio
vero è che in sulla branda mi trovai
della stanza dal sole illuminata
dormito tanto avea dovuto
che la mente un po mi dolea
come se io fossi nato in quel momento
poi che alzato mi fui e ripensai un poco a dove stavo
e che un altro anno era passato
la mia mente viaggiava per i giorni che vissuti avea con tutti voi
agli errori fatti
alle prese decisioni
ai dispiaceri e gioie co passato in 16 anni
che è quanto ho vissuto
aperta poi che ebbi la porta della mia stanza
vi ritrovai nella casa sparsi
già tutti svegli ed operosi
dai muri della casa uscì un calore
e le vostre parole potei udire
fermo in su la porta io restai
a respirar quell'aria in festa
che sapea di pace e di dolcezza
auguri
carlo
ruppemi l'alto sonno nella testa
un lieve suono sentì e mi riscossi
lasciando il torpore del caldo letto
l'occhio riposato intorno mossi
dritto levato e fisso mi guardai per capir la cagion del mio risveglio
vero è che in sulla branda mi trovai
della stanza dal sole illuminata
dormito tanto avea dovuto
che la mente un po mi dolea
come se io fossi nato in quel momento
poi che alzato mi fui e ripensai un poco a dove stavo
e che un altro anno era passato
la mia mente viaggiava per i giorni che vissuti avea con tutti voi
agli errori fatti
alle prese decisioni
ai dispiaceri e gioie co passato in 16 anni
che è quanto ho vissuto
aperta poi che ebbi la porta della mia stanza
vi ritrovai nella casa sparsi
già tutti svegli ed operosi
dai muri della casa uscì un calore
e le vostre parole potei udire
fermo in su la porta io restai
a respirar quell'aria in festa
che sapea di pace e di dolcezza
auguri
carlo
giovedì 22 luglio 2010
come se fossi nato in quel momento
...e invero, piccoli cresciuti o grandi, giovani anziani o vecchi, al buio si è tutti uguali.
buona notte biondino (elsa morante)
buona notte biondino (elsa morante)
domenica 18 luglio 2010
In verità, sono pochi coloro che sanno dell'esistenza di un piccolo cervello in ciascuna delle dita della mano, in qualche punto tra falange, falangina e falangetta. Quell'altro organo che chiamiamo cervello, quello con cui veniamo al mondo, quello che trasportiamo nel cranio e che trasporta noi affinché noi trasportiamo lui, non è mai riuscito a produrre altro che intenzioni vaghe, generiche, diffuse, e soprattutto poco variate, riguardo a ciò che le mani e le dita dovranno fare. Se, per esempio, al cervello della testa è venuta l'idea di una pittura, o di una musica, o una scultura, o un brano letterario, o una statuina di terracotta, lui non fa altro che manifestare il desiderio e rimanere poi in attesa, a vedere cosa succede. Solo perché ha trasmesso un ordine alle mani e alle dita, crede, o finge di credere, che questo era tutto ciò di cui c'era bisogno perché il lavoro, dopo un certo numero di operazioni eseguite dalle estremità delle braccia, si presentasse fatto. Non ha mai avuto la curiosità di domandarsi per quale ragione il risultato finale di codesta manipolazione, sempre complessa persino nelle sue espressioni più semplici, assomigli tanto poco a quello che aveva immaginato prima di dare istruzioni alle mani. Si noti che, quando nasciamo, le dita non hanno ancora un cervello, che ci si va formando a poco a poco con il passare del tempo e l'aiuto di ciò che vedono gli occhi. L'aiuto degli occhi è importante, tanto quanto l'aiuto di ciò che da essi viene visto. Ecco perché quanto di meglio le dita hanno sempre saputo fare è stato proprio rivelare l'occulto. Quello che nel cervello potrebbe essere percepito come scienza infusa, magica o soprannaturale, qualsiasi cosa significhino soprannaturale, magico e infuso, sono state le dita e i loro piccoli cervelli a insegnarglielo. Perché il cervello della testa sapesse cos'era la pietra, prima c'è stato bisogno che le dita la toccassero, ne sentissero l'asperità, il peso e la densità, c'è stato bisogno che vi si ferissero. Solo molto tempo dopo il cervello ha capito che da quel pezzo di roccia si sarebbe potuta fare una cosa che avrebbe chiamato coltello e una cosa che avrebbe chiamato idolo. Il cervello della testa è sempre stato in ritardo per tutta la vita rispetto alle mani, e anche ai nostri giorni, quando ci sembra che le abbia oltrepassate, sono ancora le dita che devono spiegargli le investigazioni del tatto, il fremito dell'epidermide quando sfiora la creta, l'acuta lacerazione dello scalpello, la morsa dell'acido sulla piastra, la vibrazione sottile di un foglio di carta disteso, l'orografia delle tessiture, la trama delle fibre, l'abbecedario in rilievo del mondo. E i colori. Per dovere di verità bisogna dire che, di colori, il cervello se ne intende assai meno di quanto creda. Certo è che riesce a vedere più o meno chiaramente ciò che gli occhi gli mostrano, ma per lo più soffre di quelli che potremmo definire problemi di orientamento ogni volta che arriva il momento di convertire in conoscenza quanto ha visto. Grazie all'inconsapevole sicurezza di cui la durata della vita ha finito per dotarlo, pronuncia senza esitare i nomi dei colori che chiama elementari e complementari, ma immediatamente si perde, perplesso, dubbioso, quando tenta di formare delle parole che possano servire da etichette o distici esplicativi di qualcosa che tocca l'ineffabile, di qualcosa che sfiora l'indicibile, quel colore non ancora del tutto nato che, con l'assenso, la complicità e non di rado la sorpresa degli stessi occhi, le mani e le dita vanno creando e che probabilmente non arriverà mai a ricevere il suo giusto nome. O forse già lo possiede, ma soltanto le mani lo conoscono, perché hanno composto la tinta come se stessero scomponendo le parti costitutive di una nota musicale, perché si sono sporcate nel suo colore e hanno serbato la macchia nel più profondo del derma, perché solo con quel sapere invisibile delle dita si potrà mai dipingere l'infinita tela dei sogni. Fidandosi di ciò che gli occhi hanno ritenuto di aver visto, il cervello della testa afferma che, secondo la luce e le ombre, il vento e la calma, l'umidità e la secchezza, la spiaggia è bianca, o gialla, o dorata, o grigia, o purpurea, o una cosa qualsiasi tra questo e quello, ma poi vengono le dita e, con un movimento di raccolta, come se stessero mietendo una messe, rialzano dal suolo tutti i colori che ci sono al mondo. Ciò che sembrava unico era plurale, ciò che è plurale lo sarà ancora di più. Non è men vero, tuttavia, che nell'esaltata folgorazione di un solo tono, o nella sua musicale modulazione, sono presenti e vivi tutti gli altri, tanto le tonalità dei colori che hanno già un nome quanto quelle di quei colori che ancora lo attendono, proprio come una distesa in apparenza liscia potrà coprire, nel mentre che le manifesta, le tracce di tutto il vissuto e accaduto nella storia del mondo. Tutta l'archeologia di materiali è un'archeologia umana. Ciò che questa creta nasconde e mostra è il transito dell'essere nel tempo e il suo passaggio negli spazi, i segni delle dita, i graffi delle unghie, le ceneri e i tizzoni dei fuochi spenti, le ossa proprie e altrui, i cammini che eternamente si biforcano e si vanno distanziando e perdendosi l'un l'altro. Questo granello che affiora alla superficie è una memoria, questa depressione il marchio che è rimasto di un corpo sdraiato. Il cervello ha domandato e chiesto, la mano ha risposto e fatto.
jose saramago
jose saramago
mercoledì 14 luglio 2010
martedì 6 luglio 2010
don't let me be misunderstood
Baby mi capisci adesso?
A volte mi sento una piccola pazza
beh non sai che nessun vivente
può essere sempre un angelo?
Quando le cose vanno male
sembro essere cattivissima
sono solo un'anima
le quali intenzioni le ha
buone,
oh Signore, per favore
non fare in modo che io sia fraintesa.
Baby a volte sono così spensierata
con una gioia che è difficile da
nascondere
e sembra che tutto quello
che ho sono preoccupazioni
e dopo tu
sei obbligato a vedere l'altra parte di me
se sembro essere nervosa,
voglio che
tu sappia che io non avrei mai intenzione
di prendermela con te,
la vita ha i suoi
problemi e li devo dividere con gli altri
e questa è una cosa che non vorrei
mai fare
perchè ti amo.
A volte mi sento una piccola pazza
beh non sai che nessun vivente
può essere sempre un angelo?
Quando le cose vanno male
sembro essere cattivissima
sono solo un'anima
le quali intenzioni le ha
buone,
oh Signore, per favore
non fare in modo che io sia fraintesa.
Baby a volte sono così spensierata
con una gioia che è difficile da
nascondere
e sembra che tutto quello
che ho sono preoccupazioni
e dopo tu
sei obbligato a vedere l'altra parte di me
se sembro essere nervosa,
voglio che
tu sappia che io non avrei mai intenzione
di prendermela con te,
la vita ha i suoi
problemi e li devo dividere con gli altri
e questa è una cosa che non vorrei
mai fare
perchè ti amo.
i'm your man
Se vuoi un amante
Farò ogni cosa che mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
Se vuoi un partner
Prendimi la mano
O sei vuoi abbattermi mentre sei in collera
Sono quì
Sono il tuo uomo
Se vuoi un pugile
Salirò sul ring per te
Se vuoi un dottore
Ti esaminerò ogni centimentro
Se vuoi un pilota
Salta dentro
O se vuoi usarmi per un giro
Sai che puoi
Sono quì
Ah, la luna è troppo brillante
La catena troppo stretta
La bestia non andrà a dormire
Stavo scorrendo le promesse che ti ho fatto
E che non posso mantenere
Ah ma un uomo non avrà mai una donna indietro
Non di certo mendicando sulle ginocchia
Oh striscierei fino a te ragazza
E cadrei ai tuoi piedi
E ululerei alla tua bellezza
Come un cane in calore
E graffierei il tuo cuore
E strapperei la tua coperta
Direi per favore, per favore
Sono il tuo uomo
E se dovrai dormire
Un momento sulla strada
Io guidero' per te
E se vorrai lavorare sulla strada da sola
Scomparirò per te
Se vuoi un padre per il tuo bambino
O solo camminare con me qualche istante
Sopra la sabbia
Sono il tuo uomo
Se vuoi un amante
Farò ogni cosa mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
Farò ogni cosa che mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
Se vuoi un partner
Prendimi la mano
O sei vuoi abbattermi mentre sei in collera
Sono quì
Sono il tuo uomo
Se vuoi un pugile
Salirò sul ring per te
Se vuoi un dottore
Ti esaminerò ogni centimentro
Se vuoi un pilota
Salta dentro
O se vuoi usarmi per un giro
Sai che puoi
Sono quì
Ah, la luna è troppo brillante
La catena troppo stretta
La bestia non andrà a dormire
Stavo scorrendo le promesse che ti ho fatto
E che non posso mantenere
Ah ma un uomo non avrà mai una donna indietro
Non di certo mendicando sulle ginocchia
Oh striscierei fino a te ragazza
E cadrei ai tuoi piedi
E ululerei alla tua bellezza
Come un cane in calore
E graffierei il tuo cuore
E strapperei la tua coperta
Direi per favore, per favore
Sono il tuo uomo
E se dovrai dormire
Un momento sulla strada
Io guidero' per te
E se vorrai lavorare sulla strada da sola
Scomparirò per te
Se vuoi un padre per il tuo bambino
O solo camminare con me qualche istante
Sopra la sabbia
Sono il tuo uomo
Se vuoi un amante
Farò ogni cosa mi chiederai
E se vuoi un altro tipo d'amore
Vestirò una maschera per te
lunedì 5 luglio 2010
il mestiere di scrivere
In sei mesi
Non ho letto un libro
a parte una cosa intitolata La ritirata da Mosca
di Caulaincourt.
Comunque sono contento.
Vado in macchina con mio fratello,
beviamo una pinta di Old Crow.
Non abbiamo in mente nessuna meta,
andiamo e basta.
Chiudessi gli occhi per un minuto
Ecco, sarei perduto, ma
potrei stendermi e dormire per sempre
sul ciglio della strada.
Mio fratello mi dà di gomito.
Tra un minuto , chissà, accadrà qualcosa
Non ho letto un libro
a parte una cosa intitolata La ritirata da Mosca
di Caulaincourt.
Comunque sono contento.
Vado in macchina con mio fratello,
beviamo una pinta di Old Crow.
Non abbiamo in mente nessuna meta,
andiamo e basta.
Chiudessi gli occhi per un minuto
Ecco, sarei perduto, ma
potrei stendermi e dormire per sempre
sul ciglio della strada.
Mio fratello mi dà di gomito.
Tra un minuto , chissà, accadrà qualcosa
r.carver 1989
domenica 4 luglio 2010
mercoledì 30 giugno 2010
venerdì 25 giugno 2010
martedì 22 giugno 2010
Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo la mattina, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.
Imaginaria di carta
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
venerdì 18 giugno 2010
José de Sousa Saramago
martedì 8 giugno 2010
la donna con il fiore
Elle était fort déshabillée
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.
Assise sur ma grande chaise,
Mi-nue, elle joignait les mains.
Sur le plancher frissonnaient d'aise
Ses petits pieds si fins, si fins.
- Je regardai, couleur de cire
Un petit rayon buissonnier
Papillonner dans son sourire
Et sur son sein, - mouche ou rosier.
- Je baisai ses fines chevilles.
Elle eut un doux rire brutal
Qui s'égrenait en claires trilles,
Un joli rire de cristal.
Les petits pieds sous la chemise
Se sauvèrent : "Veux-tu en finir!"
- La première audace permise,
Le rire feignait de punir!
- Pauvrets palpitants sous ma lèvre,
Je baisai doucement ses yeux:
- Elle jeta sa tête mièvre
En arrière : "Oh ! c'est encor mieux!...
Monsieur, j'ai deux mots à te dire..."
- Je lui jetai le reste au sein
Dans un baiser, qui la fit rire
D'un bon rire qui voulait bien...
- Elle était fort déshabillée
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.
- Arthur Rimbaud
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.
Assise sur ma grande chaise,
Mi-nue, elle joignait les mains.
Sur le plancher frissonnaient d'aise
Ses petits pieds si fins, si fins.
- Je regardai, couleur de cire
Un petit rayon buissonnier
Papillonner dans son sourire
Et sur son sein, - mouche ou rosier.
- Je baisai ses fines chevilles.
Elle eut un doux rire brutal
Qui s'égrenait en claires trilles,
Un joli rire de cristal.
Les petits pieds sous la chemise
Se sauvèrent : "Veux-tu en finir!"
- La première audace permise,
Le rire feignait de punir!
- Pauvrets palpitants sous ma lèvre,
Je baisai doucement ses yeux:
- Elle jeta sa tête mièvre
En arrière : "Oh ! c'est encor mieux!...
Monsieur, j'ai deux mots à te dire..."
- Je lui jetai le reste au sein
Dans un baiser, qui la fit rire
D'un bon rire qui voulait bien...
- Elle était fort déshabillée
Et de grands arbres indiscrets
Aux vitres jetaient leur feuillée
Malinement, tout près, tout près.
- Arthur Rimbaud
salitaconcordia37
Avevo dimenticato i piccoli esseri che incontravo tutti i giorni per i vicoli e le rampe, le scalette e le piazzette, che congiungono i quartieri alla collina verde
Avevo dimenticato la gran vita dei folli, gli storpi i deformi i muti, i vecchi ritornati piccini, i piccini divenuti anime perdute
e le case di allora senza ascensore avevo dimenticato
alte e tristi, talvolta irradiate di misteriosa gioia
sempre piene di euforia e di suoni e di canti
Spesso tremavano la notte quelle case per il vento improvviso
Mentre risuonavano dei passi nelle stanze che non sarebbe stato certo normale avvertire in quelle ore tarde
Perché vi erano case qui un tempo dove si sentiva
si sentiva si
(e io non ho mai capito se si trattasse di esseri umani o di poveri animali di bambini malati o di vecchi sofferenti)
qualche gemito qualche sospiro profondo
richiami spezzati subito spenti...
Sentivo che una parte della popolazione presente era di anime morte
Anime di ritornanti
Se nella realtà fisica ritornanti oppure in quella generazionale
o nelle realtà fantastica soltanto
io non sapevo
Solo sapevo che il popolo dei vecchi piccini degli inutili i deformi gli abbandonati gli antichissimi
Appariva e scompariva
Scompariva e riappariva
Di continuo
Anna maria ortese
Avevo dimenticato la gran vita dei folli, gli storpi i deformi i muti, i vecchi ritornati piccini, i piccini divenuti anime perdute
e le case di allora senza ascensore avevo dimenticato
alte e tristi, talvolta irradiate di misteriosa gioia
sempre piene di euforia e di suoni e di canti
Spesso tremavano la notte quelle case per il vento improvviso
Mentre risuonavano dei passi nelle stanze che non sarebbe stato certo normale avvertire in quelle ore tarde
Perché vi erano case qui un tempo dove si sentiva
si sentiva si
(e io non ho mai capito se si trattasse di esseri umani o di poveri animali di bambini malati o di vecchi sofferenti)
qualche gemito qualche sospiro profondo
richiami spezzati subito spenti...
Sentivo che una parte della popolazione presente era di anime morte
Anime di ritornanti
Se nella realtà fisica ritornanti oppure in quella generazionale
o nelle realtà fantastica soltanto
io non sapevo
Solo sapevo che il popolo dei vecchi piccini degli inutili i deformi gli abbandonati gli antichissimi
Appariva e scompariva
Scompariva e riappariva
Di continuo
Anna maria ortese
venerdì 28 maggio 2010
rembò
Nelle azzurre sere d'estate, andrò per i sentieri,
punzecchiato dal grano, calpestando erba tenera:
trasognato sentirò quella frescura sotto i piedi
e lascerò che il vento m'inondi il capo nudo.
non dirò niente, non penserò più a nulla: ma
l'amore infinito mi salirà nell'anima,
e me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro,
nella Natura, felice come con una donna.
- marzo 1870
punzecchiato dal grano, calpestando erba tenera:
trasognato sentirò quella frescura sotto i piedi
e lascerò che il vento m'inondi il capo nudo.
non dirò niente, non penserò più a nulla: ma
l'amore infinito mi salirà nell'anima,
e me ne andrò lontano, molto lontano come uno zingaro,
nella Natura, felice come con una donna.
- marzo 1870
domenica 16 maggio 2010
martedì 11 maggio 2010
commediadell'arte e viceversa
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... sette passi.
Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E' un bel cortile!
Si potrebbe fare un discreto teatro. Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori...
Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente.
In fondo, il capannone non aveva che trecento posti a sedere.
E il palcoscenico che era?
Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri, per quattro di profondità. Ho recitato quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati!
Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché, contano qualche cosa gli scenari?
Quali scenari ho mai avuto io?
Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate. Il torrione del castello, la sala del trono, la foresta... tutto lì!
E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s'impicciavano gli anelli...
E il pubblico non diceva niente.
"Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente", e la chiusura della tenda la completavo io, vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca.
Che conta?
Una sera, la chiusura del sipario l'ha dovuta completare mia figlia, vestita da Ofelia. Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata?
"Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso".
Una risata, un applauso, quattro colpi di martello e l'attore riprende la scena dal punto in cui l'ha lasciata.
Se gli riesce, e questo è affare suo, ristabilisce tra sé e il pubblico l'incantesimo del teatro.
Gli attori della mia generazione li creavano apposta gli incidenti a teatro, per dare al pubblico la sensazione dell'imprevisto.
E proprio questo imprevisto che eleva il teatro a forma d'arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico e finanziario che si può compiere per rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico,
ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione.
Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione.
[...] ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d'animo che attraversa in quel momento...
Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth - io lo faccio coi baffi, Macbeth -, me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione...
Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E' un bel cortile!
Si potrebbe fare un discreto teatro. Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori...
Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente.
In fondo, il capannone non aveva che trecento posti a sedere.
E il palcoscenico che era?
Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri, per quattro di profondità. Ho recitato quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati!
Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché, contano qualche cosa gli scenari?
Quali scenari ho mai avuto io?
Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate. Il torrione del castello, la sala del trono, la foresta... tutto lì!
E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s'impicciavano gli anelli...
E il pubblico non diceva niente.
"Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente", e la chiusura della tenda la completavo io, vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca.
Che conta?
Una sera, la chiusura del sipario l'ha dovuta completare mia figlia, vestita da Ofelia. Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata?
"Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso".
Una risata, un applauso, quattro colpi di martello e l'attore riprende la scena dal punto in cui l'ha lasciata.
Se gli riesce, e questo è affare suo, ristabilisce tra sé e il pubblico l'incantesimo del teatro.
Gli attori della mia generazione li creavano apposta gli incidenti a teatro, per dare al pubblico la sensazione dell'imprevisto.
E proprio questo imprevisto che eleva il teatro a forma d'arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico e finanziario che si può compiere per rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico,
ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione.
Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione.
[...] ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d'animo che attraversa in quel momento...
Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth - io lo faccio coi baffi, Macbeth -, me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione...
E.d.F.
sabato 8 maggio 2010
martedì 4 maggio 2010
M
L'intelligenza non avrà mai peso, mai, nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager tu otterrai, da una dei milioni d'anime della nostra nazione un giudizio netto, interamente indignato. Irreale è ogni idea irreale ogni passione di questo popolo ormai dissociato da secoli la cui soave saggezza gli serve a vivere, non lo ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza, alzare la mia sola, puerile voce non ha più senso. La viltà, avvezza a veder morire nel modo più atroce gli altri con la più strana indifferenza. Io muoio, e anche questo mi nuoce.
mercoledì 28 aprile 2010
martedì 27 aprile 2010
la ragione di un sogno
Caro ragazzo, sì, certo, incontriamoci,
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant'anni io sono come a diciassette.
Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne
si possono, certo, incontrare, balbettando
idee convergenti, su problemi
tra cui si aprono due decenni, un'intera vita,
e che pure apparentemente sono gli stessi.
Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d'esser soli —
ne rivela l'immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta
padre, e allora ripiegherò sull'ironia
— che t'imbarazzerà: essendo il quarantenne
più allegro e giovane del diciassettenne,
lui, ormai padrone della vita.
Oltre a questa apparenza, a questa parvenza,
non ho niente altro da dirti.
Sono avaro, quel poco che possiedo
me lo tengo stretto al cuore diabolico.
E i due palmi di pelle tra zigomo e mento,
sotto la bocca distorta a furia di sorrisi
di timidezza, e l'occhio che ha perso
il suo dolce, come un fico inacidito,
ti apparirebbero il ritratto
proprio di quella maturità che ti fa male,
maturità non fraterna. A che può servirti
un coetaneo — semplicemente intristito
nella magrezza che gli divora la carne?
Ciò ch'egli ha dato ha dato, il resto
è arida pietà.
ma non aspettarti nulla da questo incontro.
Se mai, una nuova delusione, un nuovo
vuoto: di quelli che fanno bene
alla dignità narcissica, come un dolore.
A quarant'anni io sono come a diciassette.
Frustrati, il quarantenne e il diciassettenne
si possono, certo, incontrare, balbettando
idee convergenti, su problemi
tra cui si aprono due decenni, un'intera vita,
e che pure apparentemente sono gli stessi.
Finché una parola, uscita dalle gole incerte,
inaridita di pianto e voglia d'esser soli —
ne rivela l'immedicabile disparità.
E, insieme, dovrò pure fare il poeta
padre, e allora ripiegherò sull'ironia
— che t'imbarazzerà: essendo il quarantenne
più allegro e giovane del diciassettenne,
lui, ormai padrone della vita.
Oltre a questa apparenza, a questa parvenza,
non ho niente altro da dirti.
Sono avaro, quel poco che possiedo
me lo tengo stretto al cuore diabolico.
E i due palmi di pelle tra zigomo e mento,
sotto la bocca distorta a furia di sorrisi
di timidezza, e l'occhio che ha perso
il suo dolce, come un fico inacidito,
ti apparirebbero il ritratto
proprio di quella maturità che ti fa male,
maturità non fraterna. A che può servirti
un coetaneo — semplicemente intristito
nella magrezza che gli divora la carne?
Ciò ch'egli ha dato ha dato, il resto
è arida pietà.
mercoledì 21 aprile 2010
malandrini
Roma, primi anni Settanta: un uomo solo dentro una piazza deserta. E intorno un ronzio di voci, un crepiti' o di slogan... Quell' uomo, con lo sguardo celato dietro un paio d' occhiali scuri, e' Pier Paolo Pasolini: ha le spalle poggiate contro un muro e le braccia annodate sul petto. Se ne sta li' , in silenzio, mentre il ronzio diventa tuono e il fiume di ragazzi comincia a tracimare nella piazza, fino a sommergerla. Ci sono immagini che il tempo non consuma. Erri De Luca, Pasolini lo rammenta cosi' . "Lo incontrai quella volta e mai piu' . Era una manifestazione organizzata da Lotta Continua ed io stavo nelle prime file del corteo, quelle che servivano a scoraggiare le confidenze del nemico . racconta .. Nella piazza destinata al comizio finale non si scorgeva anima viva: c' era soltanto quell' uomo fermo in un angolo. All' epoca, non eravamo teneri col vicinato: avremmo scacciato con la forza chiunque altro, ma non Pasolini. Ci colpiva il suo coraggio fisico: venire ad osservarci e a giudicarci li' dove nessun altro estraneo avrebbe mai messo piede... E poi chissa' , forse gia' allora ci inseguiva, come un' ombra, il dubbio che avesse ragione su di noi". "Pasolini strinse con Napoli un legame fisico violento, quasi marchettaro. E non poteva essere altrimenti per uno che conosceva il prezzo dei corpi in ogni angolo del mondo. Per lui anche l' imbroglio era "scambio di sapere", al punto che perfino un tentativo di borseggio, subi' to durante un' effusione, si trasformava in occasione per rinsaldare un affetto. Qui non sarebbe mai stato ucciso in una strada abbandonata: poteva accadere soltanto a Roma. Quel che non immaginava, pero' , e' che anche questa citta' , dopo il terremoto, l' avrebbe tradito. La morte gli ha risparmiato almeno una delusione". . E' in "Gennariello" che Pasolini descrive Napoli come "l' ultima metropoli plebea, l' ultimo grande villaggio". Si tratta dell' ennesimo stereotipo modellato sull' idea di una citta' immune dal contagio della storia? "Napoli sfugge ai predicati assoluti, alle definizioni che mirano ad ingabbiarla. Chi prova a colpire il centro, manca il bersaglio. E' capitato anche a Pasolini. Lui, pero' , aveva una botola segreta che, in genere, gli intellettuali non posseggono: conosceva il corpo. E questa, forse, rimane l' unica citta' dove la fisiognomica sopravvive all' erosione dei lineamenti. Qui le persone hanno ancora una faccia. Ecco, credo che Pasolini amasse soprattutto quest' aspetto di Napoli: basterebbe ricordare la lunga galleria di volti che scandisce il "Decameron", la maschera di Toto' in "Uccellacci e Uccellini". . Anche di "Gennariello", lo scrittore disegna in primo luogo i tratti del viso, la sagoma del corpo "stretto di fianchi e solido di gamba". Il ritratto, insomma, di uno scugnizzo da oleografia. "Certo, ma tutto il rapporto fra Pasolini e Gennariello sa di falso. Se ti metti dalla parte del quindicenne, non capisci una parola di quel che ti viene detto. Quel personaggio e' un pretesto, al punto che perfino il suo nome e' sbagliato: il diminutivo di Gennaro, in dialetto, e' Gennarino o Gennariniello. Lui invece se ne inventa un altro e modella il suo interlocutore plasmando la creta di un desiderio personale. Queste pagine segnano il culmine di una tensione che mira a correggere il mondo, ma rappresentano pure il fallimento di tale ambizione". . Di luterano, allora, c' e' poco in queste lettere? "Direi quasi nulla. Non c' e' la rifondazione di un nuovo cristianesimo e di una nuova lingua. E poi Lutero costruiva con i mattoni che aveva, mica se li inventava. Ci sono brani, pero' , che ancora oggi ti prendono alla gola. Come quello che parla dei "destinati a essere morti", vite salvate dal progresso della medicina. Pasolini constata che le nascite non sono piu' una benedizione in un mondo dominato dalla crescita demografica. Il suo e' un atto di accusa contro una quota della gioventu' che alla sua eccedenza numerica fa corrispondere un comportamento conformista. E' un' invettiva totale, biologicamente fondata. E sara' poi uno di quei "destinati ad essere morti" che gliela fara' pagare. Anch' io ho fatto parte di questa quota eccedente e adesso che sono vecchio mi rigiro fra i denti quelle parole senza sapere se avesse torto o ragione". . Riaffiora l' ombra del dubbio? "La verita' e' che si tratta di un autore troppo vario per le mie forze: merita piu' cuore e intelligenza di quanto io gli possa prestare. Mi e' caro soprattutto come poeta, perche' sentiva l' obbligo di governare in modo piu' sereno le sue risorse. C' e' una poesia, "Gerarchia", che amo molto. Venne pubblicata nel ' 70 su "Nuovi Argomenti", in un numero dove comparivano anche i miei primi scritti. Un verso dice: "Accuso i vecchi di avere fatto la volonta' della vita". Pasolini non voleva che Gennariello finisse come quei vecchi. Ma Gennariello non esisteva, non esiste. Ed e' per questo che quell' accusa si vena della pieta' carnale di una madre". . Sono trascorsi vent' anni da quell' incontro in una piazza deserta: chi aveva ragione? "Non lo so. Noi abbiamo dimostrato di essere peggio di quel che sembrava a Pasolini. Ma eravamo pure l' unica possibilita' e lui non voleva concedercelo. Oggi sento la sua mancanza, come tutti quelli che hanno imparato qualcosa prendendosela con lui o prendendosela da lui. Ma avverto soprattutto la sua presenza e l' onore che ci ha fatto ad essere nostro contemporaneo. Uno come lui non c' era prima e non c' e' stato dopo. Avremmo dovuto fare qualcosa in piu' per meritarci la sua vita".
martedì 20 aprile 2010
sabato 10 aprile 2010
rossiccio
A volte di tutto questo rimane solo una macchia di parole le tasche e le mani.
Una penna col cappuccio mordicchiato di pensieri, una penna che si dilania a scrivere sul precipizio adorato dell'infinito delle piccole cose.
Stasera questa penna confusionaria che senza religione s'aggira falsa nei misteri metropolitani
dello squallido della mia mente mi racconta la mia fanghiglia d'inchiostro ed arrangiata poesia.
Parlo del mondo intero, per questo non ho più un senso. A volte ti sussurro del cielo intero, tornando a notte, e nei miei sogni ti scrivo sulla pelle tutto il bene di cui sono capace.
Una penna col cappuccio mordicchiato di pensieri, una penna che si dilania a scrivere sul precipizio adorato dell'infinito delle piccole cose.
Stasera questa penna confusionaria che senza religione s'aggira falsa nei misteri metropolitani
dello squallido della mia mente mi racconta la mia fanghiglia d'inchiostro ed arrangiata poesia.
Parlo del mondo intero, per questo non ho più un senso. A volte ti sussurro del cielo intero, tornando a notte, e nei miei sogni ti scrivo sulla pelle tutto il bene di cui sono capace.

#0
Strinsi le mani sotto il velo oscuro...
"Perché oggi sei pallida?"
Perché d'agra tristezza
l'ho abbeverato fino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore...
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui fino al portone.
Soffocando, gridai: "E' stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai".
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: "Non startene al vento".
[a.achmatova]
"Perché oggi sei pallida?"
Perché d'agra tristezza
l'ho abbeverato fino ad ubriacarlo.
Come dimenticare? Uscì vacillando,
sulla bocca una smorfia di dolore...
Corsi senza sfiorare la ringhiera,
corsi dietro di lui fino al portone.
Soffocando, gridai: "E' stato tutto
uno scherzo. Muoio se te ne vai".
Lui sorrise calmo, crudele
e mi disse: "Non startene al vento".
[a.achmatova]
banditismi
Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.
Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.
Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.
Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attravesa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.
[Erri De Luca, Ballata per una prigioniera]
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.
Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.
Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.
Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attravesa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.
martedì 6 aprile 2010
domenica 4 aprile 2010
Vento in faccia
Le prime volte sperimenti il vento che fanno i corpi in
corsa. Vedi la fuga che ti arriva contro, i tuoi scappano, tu ti
tieni su un bordo per non averli addosso. Corrono zitti, nien-
te gridi, il fiato serve tutto per le gambe. Guardi la loro corsa.
È vento in faccia, corpi di ragazzi e ragazze schizzano via, nes-
suno bada a te. Poi qualcuno dirà sì, l'ho visto, era fermo sul-
l'angolo, appoggiato al muro.
Dietro arrivano le truppe in divisa. Tu aspetti la poca ter-
ra di nessuno tra i fuggiti e quelli che rincorrono, ti stacchi
dal margine, dal muro, tiri quello che hai in mano, tiri basso
per far inciampare, poi tocca a te schizzare. Hai avuto
tempo di guardare dove ti conviene, dove hai vantaggio,
meglio se in salita. Chi insegue ha già l'affanno e si scorag-
gia a correre contro una pendenza. Anche se vuole tirarti
dietro qualche colpo, è più scomodo un bersaglio che sta
più in alto.
Hai poco vantaggio, qualche metro, ma con la sortita hai
scombinato, per qualche secondo, il loro galoppo, li hai sor-
presi. Vedono te soltanto, ma gli frulla il dubbio che ce ne
sono altri, per un altro secondo guardano intorno. E un vec-
chio vizio del timore, quello di non fidarsi dei propri sensi
in punto di concitazione. Ne profitti e guadagni metri.
Hanno capito infine che sei solo una scheggia, quella che
sbatte contro le gambe larghe di chi abbatte un albero con
l'ascia. Dietro di te scoppia la loro collera e li trascina alla
rincorsa, senti che qualcuno strilla d'acchiapparti, pensi:
meglio ancora, sprecano a gridi la riserva d'aria, in venti,
trenta metri avranno il fiato spento, si dovranno piantare in
piena corsa a rifiatare. Intanto hai scomposto il loro inse-
guimento, i tuoi sono al riparo e tu puoi rallentare, tentare
di raggiungerli nel posto successivo, già concordato in caso
di fuga. Tu: chi sei?
Sei uno che un giorno dentro una carica delle truppe sei
rimasto fermo. T'è venuto sgomento per la corsa sganghe-
rata di quelli intorno, che se uno cadeva gli altri magari gli
passavano sopra con il panico. Ti dava pena la corsa goffa di
molte ragazze che allora non andavano in palestre e per i
parchi a fare allenamenti. Quand'è toccato a te d'essere gio-
vane, e giovane di strada, lo sport era stato l'ora di educa-
zione fisica in un camerone di scuola. I ragazzi sapevano
correre perché giocavano a palla nella Villa Comunale,
interrotti dai vigili urbani. Le ragazze non sapevano corre-
re. Imparavano allora, nelle manifestazioni attaccate, affumicate, inseguite.
[erri de luca]
corsa. Vedi la fuga che ti arriva contro, i tuoi scappano, tu ti
tieni su un bordo per non averli addosso. Corrono zitti, nien-
te gridi, il fiato serve tutto per le gambe. Guardi la loro corsa.
È vento in faccia, corpi di ragazzi e ragazze schizzano via, nes-
suno bada a te. Poi qualcuno dirà sì, l'ho visto, era fermo sul-
l'angolo, appoggiato al muro.
Dietro arrivano le truppe in divisa. Tu aspetti la poca ter-
ra di nessuno tra i fuggiti e quelli che rincorrono, ti stacchi
dal margine, dal muro, tiri quello che hai in mano, tiri basso
per far inciampare, poi tocca a te schizzare. Hai avuto
tempo di guardare dove ti conviene, dove hai vantaggio,
meglio se in salita. Chi insegue ha già l'affanno e si scorag-
gia a correre contro una pendenza. Anche se vuole tirarti
dietro qualche colpo, è più scomodo un bersaglio che sta
più in alto.
Hai poco vantaggio, qualche metro, ma con la sortita hai
scombinato, per qualche secondo, il loro galoppo, li hai sor-
presi. Vedono te soltanto, ma gli frulla il dubbio che ce ne
sono altri, per un altro secondo guardano intorno. E un vec-
chio vizio del timore, quello di non fidarsi dei propri sensi
in punto di concitazione. Ne profitti e guadagni metri.
Hanno capito infine che sei solo una scheggia, quella che
sbatte contro le gambe larghe di chi abbatte un albero con
l'ascia. Dietro di te scoppia la loro collera e li trascina alla
rincorsa, senti che qualcuno strilla d'acchiapparti, pensi:
meglio ancora, sprecano a gridi la riserva d'aria, in venti,
trenta metri avranno il fiato spento, si dovranno piantare in
piena corsa a rifiatare. Intanto hai scomposto il loro inse-
guimento, i tuoi sono al riparo e tu puoi rallentare, tentare
di raggiungerli nel posto successivo, già concordato in caso
di fuga. Tu: chi sei?
Sei uno che un giorno dentro una carica delle truppe sei
rimasto fermo. T'è venuto sgomento per la corsa sganghe-
rata di quelli intorno, che se uno cadeva gli altri magari gli
passavano sopra con il panico. Ti dava pena la corsa goffa di
molte ragazze che allora non andavano in palestre e per i
parchi a fare allenamenti. Quand'è toccato a te d'essere gio-
vane, e giovane di strada, lo sport era stato l'ora di educa-
zione fisica in un camerone di scuola. I ragazzi sapevano
correre perché giocavano a palla nella Villa Comunale,
interrotti dai vigili urbani. Le ragazze non sapevano corre-
re. Imparavano allora, nelle manifestazioni attaccate, affumicate, inseguite.
[erri de luca]
sabato 3 aprile 2010
grayskull
non saper dire addio porta alla perdita di parti molto importanti del corpo, come le braccia o le orecchie. vorrei essere lontano a volte, come se esistessero luoghi in cui alla mente non arrivano timori di conoscere troppo e di non sapere nulla.
lunedì 29 marzo 2010
sogno e follia
....l’interesse di Foucault è volto al spere concepito come esperienza, ossia come pratica in cui si vengono a costituire tanto il soggetto quanto l’oggetto.
Egli prende come esempio i suoi studi sulla follia, in cui ha cercato di individuare le ragioni per cui essa è diventata in occidente un preciso oggetto di analisi scientifica solo a partire dal 18secolo, le modalità con le quali nel momento stesso in cui si costituiva l’oggetto follia, prendeva forma anche il soggetto ritenuto capace di riconoscere la follia.
Viene proposta una critica della psicoanalisi, ritenuta colpevole di dissolvere i rapporti dell’uomo con il suo ambiente; la malattia mentale è presentata come una conseguenza delle contraddizioni sociali nelle quali l’uomo si è storicamente alienato.
Foucault concepisce il sogno come una forma specifica di esperienza, secondo una tradizione ormai dimenticata, criticando l’Interpretazione dei sogni di Freud, che è mosso invece dal tentativo di garantire la presa di possesso del sogno da parte della coscienza.
La peculiarità del sogno sta invece nel fatto che esso mette in luce la libertà originaria dell’uomo, la nascita del mondo nel movimento stesso dell’esistenza....
da Antologia - Foucault
introduzione di V.Sorrentino
Egli prende come esempio i suoi studi sulla follia, in cui ha cercato di individuare le ragioni per cui essa è diventata in occidente un preciso oggetto di analisi scientifica solo a partire dal 18secolo, le modalità con le quali nel momento stesso in cui si costituiva l’oggetto follia, prendeva forma anche il soggetto ritenuto capace di riconoscere la follia.
Viene proposta una critica della psicoanalisi, ritenuta colpevole di dissolvere i rapporti dell’uomo con il suo ambiente; la malattia mentale è presentata come una conseguenza delle contraddizioni sociali nelle quali l’uomo si è storicamente alienato.
Foucault concepisce il sogno come una forma specifica di esperienza, secondo una tradizione ormai dimenticata, criticando l’Interpretazione dei sogni di Freud, che è mosso invece dal tentativo di garantire la presa di possesso del sogno da parte della coscienza.
La peculiarità del sogno sta invece nel fatto che esso mette in luce la libertà originaria dell’uomo, la nascita del mondo nel movimento stesso dell’esistenza....
da Antologia - Foucault
introduzione di V.Sorrentino
domenica 28 marzo 2010
martedì 23 marzo 2010
il peso della farfalla
In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.
In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.
Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.
Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.
Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
non il loro peso,
a te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.
Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone
all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.
[Erri De Luca]
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.
In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.
Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.
Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.
Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
non il loro peso,
a te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.
Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone
all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.
[Erri De Luca]

rayuela
Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta fra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna.
Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando entro i loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se ci soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.
J. Cortazar (il gioco del mondo)
Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando entro i loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se ci soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.
J. Cortazar (il gioco del mondo)
lunedì 22 marzo 2010
le ragioni della collera
Ti amo per le ciglia, per i capelli, ti dibatto nei corridoi
bianchissimi dove si giocano le fonti delle luci,
ti discuto a ogni nome, ti svelo con delicatezza di cicatrice,
ti vado mettendo sulla testa ceneri di lampo e nastri
che nella pioggia dormivano.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia
precisamente ciò che viene dietro la tua mano,
perché l’acqua, considera l’acqua, e i leoni quando si
dissolvono nello zucchero della favola,
e i gesti, questa architettura del nulla,
che accendono le loro lampade a metà dell’incontro.
Tutta mattina è la lavagna dove ti invento e ti disegno,
pronto a cancellarti, così non sei, neppure con questi
capelli lisciati, questo sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo della coppa
dove il vino è anche la luna e lo specchio,
cerco questa linea che fa tremare un uomo in una galleria di museo.
Per di più ti amo, e fa tempo e freddo.
Julio Cortàzar
bianchissimi dove si giocano le fonti delle luci,
ti discuto a ogni nome, ti svelo con delicatezza di cicatrice,
ti vado mettendo sulla testa ceneri di lampo e nastri
che nella pioggia dormivano.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia
precisamente ciò che viene dietro la tua mano,
perché l’acqua, considera l’acqua, e i leoni quando si
dissolvono nello zucchero della favola,
e i gesti, questa architettura del nulla,
che accendono le loro lampade a metà dell’incontro.
Tutta mattina è la lavagna dove ti invento e ti disegno,
pronto a cancellarti, così non sei, neppure con questi
capelli lisciati, questo sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo della coppa
dove il vino è anche la luna e lo specchio,
cerco questa linea che fa tremare un uomo in una galleria di museo.
Per di più ti amo, e fa tempo e freddo.
Julio Cortàzar

sabato 20 marzo 2010
la sera non cantavi mai
.......
Rompevo i giocattoli. Al momento di riceverli guardavo con sospetto quegli oggetti che dovevano appartenermi. Non dava certo piacere a voi essere ricambiati dalla mia diffidenza iniziale anziché dalla gioia. L’emozione di averli mi preoccupava più che eccitarmi. Mi assicuravo dei miei diritti chiedendo: è mio? Sì, lo era, ma non aveva il senso che intendevo io, perché era collegato alle solite necessità e veniva dopo il non fare chiasso, il non sporcarsi e negli orari stabiliti. Era un mio a povere dosi, un mio da bambini, mentre invece il giocattolo mi faceva desiderare un’immensa libertà in cui lo spazio per giocare e il tempo che avrei trascorso così, erano pure quelli miei, senza confini. È mio?, chiedevo. “Sì, ma non lo rompere.” Un Natale non me ne fu comprato nessuno, perché avevo continuato a romperli tutti, quelli dell’anno prima. Vi eravate dispiaciuti e me l’avevate detto che quell’anno non me ne avreste comprati. Tu mi rimproveravi lo spreco commesso di fronte a tanti bambini che non ne avevano nessuno. Oggi ripenso anche ai sacrifici che facevate per consentirvi quelle spese, anche se non parlavate di problemi di soldi. Più tardi, e molto, capii i vostri conti striminziti che spremevate per ricavare di che imbastire un Natale. Ma da bambino non capivo quello che dicevate. Il giocattolo era mio in un modo che non sapevo dimostrare. Aveva una sua durata nella quale l’avrei conosciuto, maneggiato, lasciato. Poi finiva. Avrei dovuto riporlo in qualche posto, poi forse l’avresti regalato a qualche altro bambino come facevi con quelli della sorellina. Avrei dovuto fare così, ma mi restava invece una parte enorme della sua durata che consisteva nell’attimo della sua fine. Le cose hanno un momento in cui sono improvvisamente diverse. Un legno appena spaccato, una pietra staccata da un suo posto forse millenario: per un momento solo hanno un volto segreto conosciuto solo da chi è testimone dell’improvviso cambiamento. Per un solo momento sono così, perché dopo un secondo sono diventati vecchi di cento anni. Accadde così anche all’universo, dicono, che è invecchiato nei primi secondi della sua formazione più che nei miliardi di anni successivi. La morte non è uguale per tutte le cose: ci sono oggetti che cominciano a invecchiare solo dopo aver attraversato la morte. Un giocattolo invecchia dopo che si è rotto, dopo che è morto.
Le cose hanno un volto segreto che un bambino può scrutare. Rompevo il giocattolo: non per la insignificante curiosità di vedere cosa ci fosse dentro, come fosse fatto, ma per vedere l’attimo in cui era di colpo disfatto, prima di perdersi nell’indistinto dei suoi pezzi. Dura poco il gioco. Sapevo che durava quanto l’attimo in cui si sarebbe rotto, o che quell’attimo valeva tutta la sua durata precedente. Solo allora il gioco era di chi l’aveva avuto in mano, solo allora era mio del tutto. Solo in morte la vita è interamente di chi l’ha vissuta, e il possesso è senza donatori, senza rimproveri.
Ti parlo, mamma, che sei così giovane rispetto a me per una sera, di quest’antico tuo regalo del quale mi sembra di poter completare il possesso proprio ora. È mia la vita che mi desti? Stasera sì, è mia del tutto.
.......
da "Non ora non qui" - Erri de Luca - 1989
Rompevo i giocattoli. Al momento di riceverli guardavo con sospetto quegli oggetti che dovevano appartenermi. Non dava certo piacere a voi essere ricambiati dalla mia diffidenza iniziale anziché dalla gioia. L’emozione di averli mi preoccupava più che eccitarmi. Mi assicuravo dei miei diritti chiedendo: è mio? Sì, lo era, ma non aveva il senso che intendevo io, perché era collegato alle solite necessità e veniva dopo il non fare chiasso, il non sporcarsi e negli orari stabiliti. Era un mio a povere dosi, un mio da bambini, mentre invece il giocattolo mi faceva desiderare un’immensa libertà in cui lo spazio per giocare e il tempo che avrei trascorso così, erano pure quelli miei, senza confini. È mio?, chiedevo. “Sì, ma non lo rompere.” Un Natale non me ne fu comprato nessuno, perché avevo continuato a romperli tutti, quelli dell’anno prima. Vi eravate dispiaciuti e me l’avevate detto che quell’anno non me ne avreste comprati. Tu mi rimproveravi lo spreco commesso di fronte a tanti bambini che non ne avevano nessuno. Oggi ripenso anche ai sacrifici che facevate per consentirvi quelle spese, anche se non parlavate di problemi di soldi. Più tardi, e molto, capii i vostri conti striminziti che spremevate per ricavare di che imbastire un Natale. Ma da bambino non capivo quello che dicevate. Il giocattolo era mio in un modo che non sapevo dimostrare. Aveva una sua durata nella quale l’avrei conosciuto, maneggiato, lasciato. Poi finiva. Avrei dovuto riporlo in qualche posto, poi forse l’avresti regalato a qualche altro bambino come facevi con quelli della sorellina. Avrei dovuto fare così, ma mi restava invece una parte enorme della sua durata che consisteva nell’attimo della sua fine. Le cose hanno un momento in cui sono improvvisamente diverse. Un legno appena spaccato, una pietra staccata da un suo posto forse millenario: per un momento solo hanno un volto segreto conosciuto solo da chi è testimone dell’improvviso cambiamento. Per un solo momento sono così, perché dopo un secondo sono diventati vecchi di cento anni. Accadde così anche all’universo, dicono, che è invecchiato nei primi secondi della sua formazione più che nei miliardi di anni successivi. La morte non è uguale per tutte le cose: ci sono oggetti che cominciano a invecchiare solo dopo aver attraversato la morte. Un giocattolo invecchia dopo che si è rotto, dopo che è morto.
Le cose hanno un volto segreto che un bambino può scrutare. Rompevo il giocattolo: non per la insignificante curiosità di vedere cosa ci fosse dentro, come fosse fatto, ma per vedere l’attimo in cui era di colpo disfatto, prima di perdersi nell’indistinto dei suoi pezzi. Dura poco il gioco. Sapevo che durava quanto l’attimo in cui si sarebbe rotto, o che quell’attimo valeva tutta la sua durata precedente. Solo allora il gioco era di chi l’aveva avuto in mano, solo allora era mio del tutto. Solo in morte la vita è interamente di chi l’ha vissuta, e il possesso è senza donatori, senza rimproveri.
Ti parlo, mamma, che sei così giovane rispetto a me per una sera, di quest’antico tuo regalo del quale mi sembra di poter completare il possesso proprio ora. È mia la vita che mi desti? Stasera sì, è mia del tutto.
.......
da "Non ora non qui" - Erri de Luca - 1989
venerdì 19 marzo 2010
la canzone dell'impossibile
La solitudine.
La pioggia che dolcemente cade sulla città
Un pomeriggio di fine inverno dopo il temporale
raggi di sole si infiltrano tra nuvole malate
di primavera
pensa a una stanza con finestre altissime
e un barlume di passato che riappare
come se il vivere fosse attaccato ai tuoi vestiti
e del prezzo che paghi come ogni soldato
che ha chiuso la vita in un bacio non dato
ma tu ora dimmi che cosa volevi da me
Ritorna l'ordine dopo il disordine
accettiamo il caos insieme all'utopia
Con la matita un giorno scrissero
la nostra storia pronta ad essere cancellata
Ma c'è una calma e un cielo così limpido
Che non mi sembra più nemmeno una città.
Verso la fine dell'inverno il pomeriggio annuncia giorni lunghi e miti
cercando un senso dove non c'è un senso è lì che t'incontrai
e ora mutano insieme a te giorni e stagioni che scendono al mare
su un letto di fiumi che parlano ancora al poeta che scrive per te
Guardiamo il mare con l'occhio implacabile
Poi ci tuffiamo tra le verdi onde
e dagli spruzzi alcune gocce si posarono laggiù
dove sull'orizzonte sta un arcobaleno
in chiave di violino.
La pioggia che dolcemente cade sulla città
Un pomeriggio di fine inverno dopo il temporale
raggi di sole si infiltrano tra nuvole malate
di primavera
pensa a una stanza con finestre altissime
e un barlume di passato che riappare
come se il vivere fosse attaccato ai tuoi vestiti
e del prezzo che paghi come ogni soldato
che ha chiuso la vita in un bacio non dato
ma tu ora dimmi che cosa volevi da me
Ritorna l'ordine dopo il disordine
accettiamo il caos insieme all'utopia
Con la matita un giorno scrissero
la nostra storia pronta ad essere cancellata
Ma c'è una calma e un cielo così limpido
Che non mi sembra più nemmeno una città.
Verso la fine dell'inverno il pomeriggio annuncia giorni lunghi e miti
cercando un senso dove non c'è un senso è lì che t'incontrai
e ora mutano insieme a te giorni e stagioni che scendono al mare
su un letto di fiumi che parlano ancora al poeta che scrive per te
Guardiamo il mare con l'occhio implacabile
Poi ci tuffiamo tra le verdi onde
e dagli spruzzi alcune gocce si posarono laggiù
dove sull'orizzonte sta un arcobaleno
in chiave di violino.

lunedì 15 marzo 2010
domenica 14 marzo 2010
no, non ora, non qui
Tu vivi sempre nei tuoi atti.
Con la punta delle dita
sfiori il mondo, gli strappi
aurore, trionfi, colori,
allegrie: è la tua musica.
La vita è ciò che tu suoni.
Dai tuoi occhi solamente
emana la luce che guida
i tuoi passi. Cammini
fra ciò che vedi. Soltanto.
E se un dubbio ti fa cenno
a diecimila chilometri,
abbandoni tutto, ti lanci
su prore, su ali,
sei subito lì; con i baci,
coi denti lo laceri:
non è più dubbio.
Tu mai puoi dubitare.
Perché tu hai capovolto
i misteri. E i tuoi enigmi,
ciò che mai potrai capire,
sono le cose più chiare:
la sabbia dove ti stendi,
il battito del tuo orologio
e il tenero corpo rosato
che nel tuo specchio ritrovi
ogni giorno al risveglio,
ed è il tuo. I prodigi
che sono già decifrati.
E mai ti sei sbagliata,
solo una volta, una notte
che t'invaghisti di un'ombra
- l'unica che ti è piaciuta -
Un'ombra pareva.
E volesti abbracciarla.
Ed ero io.
da Padro Salinas - La voce a te dovuta (Raccolta) - Einaudi 1979
Con la punta delle dita
sfiori il mondo, gli strappi
aurore, trionfi, colori,
allegrie: è la tua musica.
La vita è ciò che tu suoni.
Dai tuoi occhi solamente
emana la luce che guida
i tuoi passi. Cammini
fra ciò che vedi. Soltanto.
E se un dubbio ti fa cenno
a diecimila chilometri,
abbandoni tutto, ti lanci
su prore, su ali,
sei subito lì; con i baci,
coi denti lo laceri:
non è più dubbio.
Tu mai puoi dubitare.
Perché tu hai capovolto
i misteri. E i tuoi enigmi,
ciò che mai potrai capire,
sono le cose più chiare:
la sabbia dove ti stendi,
il battito del tuo orologio
e il tenero corpo rosato
che nel tuo specchio ritrovi
ogni giorno al risveglio,
ed è il tuo. I prodigi
che sono già decifrati.
E mai ti sei sbagliata,
solo una volta, una notte
che t'invaghisti di un'ombra
- l'unica che ti è piaciuta -
Un'ombra pareva.
E volesti abbracciarla.
Ed ero io.
da Padro Salinas - La voce a te dovuta (Raccolta) - Einaudi 1979

mercoledì 3 marzo 2010
la camera
Gli uomini normali credono ancora ch'io sia dei loro. Ma non potrei restare neppure un ora in loro compagnia. Ho bisogno di vivere là, dall'altra parte di questo muro. Ma là, non sanno che farsene di me.
j.p.S.
j.p.S.
essere michael furey

La stanza si è immersa nel silenzio e nel buio. II soffitto mi pesa addosso, trasudante, compatto. Completamente nudo mi muovo appena sotto il lenzuolo bianco, sottilissimo. Lo stringo con i denti, con le labbra. Poi lo sposto, lo sollevo in aria... si gonfia, ricade adagio... Un brivido... Cristina, sto male, sto tremando, ho la febbre... e sudo, e sudo, e sudo... e invoco... e deliro. E ancora una volta sudo dalla testa ai piedi. Mi passo una mano sul corpo, caldo, caldissimo, bagnato... sulle cosce, sulla pancia, e poi... Cristina, Cristina, Cristina!.. L'immagine si fa più pressante, corporea. Anche lei è tutta sudata, sudatissima. Le sue mani sul mio corpo... sì, le sento: allucinazione, ricordo, dolore, stordimento, stanchezza, eccitazione forse... ma in delirio. Ora mi giro, e strofino il mio corpo contro il letto. forse sussurro anche qualcosa... Ma certo, è un attimo: lacrime, calore, saliva, frasi, membra, rimpianti, globuli, liquefazione, tutto... tutto si riversa sul lenzuolo.
Addio Cristina.
g.g. '86
venerdì 26 febbraio 2010
la finestra su campi flegrei
C'è tutta una vita nella stanza del nonno.
Ecco - probabilmente - si potrebbe immaginare - pensiero - allucinazione - forse sogno - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - piccole finestre - semichiuse - odore strano - particolare - non sgradevole - mobili antichi - dignitosi - anni cinquanta - antiquariato - certo, però povero - vecchie foto - eccolo – lui, alpino - con la penna - certo, sul cappello - campagna di Russia - battaglione - si potrebbe dire - eroico - partiti ottomilacinquecento - tornati centocinquanta - lui compreso - che tempra - partigiano - sì, anche - ma dopo - subito dopo - socialista - certo, ma cattolico - attività - ricostruzione - dopoguerra - rappresentante - sì, efficace - dinamico - seicento multipla - grande scritta - Idrolitina.
E poi la casa - sì, del nonno - in questo assurdo - chiamiamolo così - posto - altri oggetti – coppe - trofei - corridore - ciclista - non esageriamo - dilettante - gran passione - Coppi e Bartali incorniciati - sui Pirenei - credo - passaggio di borraccia - sì, ma chi la passa - mai saputo - non importa - viva l'Italia - e poi in un angolo - la sua gloriosa - certo, fisarmonica – animatore - suonatore - come dire - festini - donne - allegria - motivetti - 'Volo del calabrone'? - no, mai riuscito - specialità 'Bongo Bongo'.
E poi la stanza - sì, del nonno - sopra il letto - grande foto - sì, l'Elvira - la moglie - morta - colpa sua - non si sa - si potrebbe dire - mai a casa, lui
E poi la stanza - sì, del nonno - boccette - vitamine - pastiglie - la televisione - LA TELEVISIONE NONNO! - macché, tutto volume - sempre lì - incollato - proprio lui - così energico - vitale - sempre meno - apatia - sonnolenza - insonnia - memoria - diciamo pure - assente - autosufficienza - sempre meno – il pensiero - adagiato - passivo - e le visite - sì, dei parenti - sempre meno - sempre meno - solitudine - solitudine - solitudine totale.
Ecco - probabilmente - si potrebbe immaginare - pensiero - allucinazione - forse sogno - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - la stanza - sì, del nonno - no, dei nonni - di tutti i nonni - peggiorata - più buia - più nessuno - malinconia - desolazione - sconforto - e poi dolori - artrosi - cefalea - insonnia - diarrea - vomito - nausea - senza poter più - diciamo così - alzarsi - incontinenza - perdite - pannoloni - vergogna - casa di riposo - ipotesi cancellata - non c'è posto - clinica privata - ipotesi cancellata - troppi soldi - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - senza poter più - diciamo così - servire - sì, a qualcuno - a qualcosa - rinchiuso - rintanato - abbandonato - gettato via - in questo osceno - chiamiamolo così - mondo - così lontano - da un'esistenza - che lentamente - scompare - totalmente ignorata - in questo porco - chiamiamolo così - mondo - che continua la sua corsa - convulsa - frenetica - travolgente - non c'è tempo - non c'è tempo - non c'è tempo.
Però c'è tutta una vita nella stanza del nonno.
Ecco - probabilmente - si potrebbe immaginare - pensiero - allucinazione - forse sogno - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - piccole finestre - semichiuse - odore strano - particolare - non sgradevole - mobili antichi - dignitosi - anni cinquanta - antiquariato - certo, però povero - vecchie foto - eccolo – lui, alpino - con la penna - certo, sul cappello - campagna di Russia - battaglione - si potrebbe dire - eroico - partiti ottomilacinquecento - tornati centocinquanta - lui compreso - che tempra - partigiano - sì, anche - ma dopo - subito dopo - socialista - certo, ma cattolico - attività - ricostruzione - dopoguerra - rappresentante - sì, efficace - dinamico - seicento multipla - grande scritta - Idrolitina.
E poi la casa - sì, del nonno - in questo assurdo - chiamiamolo così - posto - altri oggetti – coppe - trofei - corridore - ciclista - non esageriamo - dilettante - gran passione - Coppi e Bartali incorniciati - sui Pirenei - credo - passaggio di borraccia - sì, ma chi la passa - mai saputo - non importa - viva l'Italia - e poi in un angolo - la sua gloriosa - certo, fisarmonica – animatore - suonatore - come dire - festini - donne - allegria - motivetti - 'Volo del calabrone'? - no, mai riuscito - specialità 'Bongo Bongo'.
E poi la stanza - sì, del nonno - sopra il letto - grande foto - sì, l'Elvira - la moglie - morta - colpa sua - non si sa - si potrebbe dire - mai a casa, lui
E poi la stanza - sì, del nonno - boccette - vitamine - pastiglie - la televisione - LA TELEVISIONE NONNO! - macché, tutto volume - sempre lì - incollato - proprio lui - così energico - vitale - sempre meno - apatia - sonnolenza - insonnia - memoria - diciamo pure - assente - autosufficienza - sempre meno – il pensiero - adagiato - passivo - e le visite - sì, dei parenti - sempre meno - sempre meno - solitudine - solitudine - solitudine totale.
Ecco - probabilmente - si potrebbe immaginare - pensiero - allucinazione - forse sogno - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - la stanza - sì, del nonno - no, dei nonni - di tutti i nonni - peggiorata - più buia - più nessuno - malinconia - desolazione - sconforto - e poi dolori - artrosi - cefalea - insonnia - diarrea - vomito - nausea - senza poter più - diciamo così - alzarsi - incontinenza - perdite - pannoloni - vergogna - casa di riposo - ipotesi cancellata - non c'è posto - clinica privata - ipotesi cancellata - troppi soldi - in questo assurdo - chiamiamolo così - mondo - senza poter più - diciamo così - servire - sì, a qualcuno - a qualcosa - rinchiuso - rintanato - abbandonato - gettato via - in questo osceno - chiamiamolo così - mondo - così lontano - da un'esistenza - che lentamente - scompare - totalmente ignorata - in questo porco - chiamiamolo così - mondo - che continua la sua corsa - convulsa - frenetica - travolgente - non c'è tempo - non c'è tempo - non c'è tempo.
Però c'è tutta una vita nella stanza del nonno.
g.g. 1999
lunedì 22 febbraio 2010
scoprendo il bene
Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata di spada, armata di dolore. Era uno umile e indifeso, di cui si sentiva che andava protetto, e bisognava proteggerlo, proteggerlo dalla propria umiltà. Era antico, di un’antichità ormai difficile da reperire nei volti e nei gesti degli altri, contraffatti nella smorfia di questo tempo smorfioso, in cui bisogna somigliare a qualcuno, era uno antico, di un’antichità da repubblica romana, un’antichità antica, in cui era trascritta la forza e la violenza della sua umiltà umana. Sembra strano dire questo, ma era uno tenero, di una tenerezza maniaca, di una tenerezza antica, non fatta di smancerie, ma di poche parole, di cose che si sanno, che non c’è bisogno di dire. Ed era anche profumato di una sua santità. Sembrava forse arroganza questo essere nello stesso tempo e umile e antico e tenero e profumato, ed era un’antichità difesa : egli chiamava a sé questa protezione che nasceva dall’umiltà, dall’antichità, dalla tenerezza. Dico questo perché è cio che di lui non si sa. Di lui si sa tutto il resto, ma non si sa questo, quanto fosse tutto questo per essere il resto, quello cioè che è stato in scena, sempre, Pinocchio e Amleto, e Macbeth, Tamerlano e Maiakovski e Salomè fino alla parte estrema di sé data al teatro, Pentesilea o Achilleide, tra l’uno e l’altro, col silenzio estremo delle voragini, con le spiegazioni che restano al di qua d’ogni atto dell’essere teatro fino all’estremo. Ridire Shakespeare o Laforgue, farsi nemici e amici, amare, amare Shakespeare facendo finta di non amarlo, era discussione di uno umile, ripensare Laforgue come risposta all’apparente disamore era amore ulteriore, umiltà ulteriore. Egli era amore del teatro, un amore tanto passionale da essere violentemente possessivo e incontrollabile, eccedente. Era anche eccessivo, di un’eccessività antica e intransigente, stendhaliana, che non esiste più, che non si trova più nemmeno nelle biografie stendhaliane, che si ritrova ancora solo nelle Chroniques italiennes, carattere antico e arcaico che guarda e distrugge per verità, una verità senza problemi, senza dialettiche, senza aforismi, senza metafore. Grandezza arcana della scena di Carmelo, bambino, cresciuto bambino, vissuto bambino, grandezza di antico colore italiano che non si trova più, grandezza di un incedere con la violenza forsennata e potente, con un ultimo guizzo d’impero negli occhi. Animula vagula blandula, hospes comesque corporis, nec dabis jocos…
gp. Manganaro
gp. Manganaro
intorno alla morte di Carmelo Bene
Il muro
venerdì 19 febbraio 2010
cortili
mercoledì 17 febbraio 2010
mercoledì 10 febbraio 2010
raccontando del buio
Da voi invece tutto sembra piano, liscio, euclideo.
Tutto è senza rischio. O almeno così appare.
Tutto è senza orrore curve inibizioni.
Nu muro eterno a voi vi libera dai raggi
li rimanda li riflette
Scherma.
La luce non vi acceca, no
non è per voi tortura,
una fissa ed atroce compagnia.
Piuttosto vi accarezza
vi lusinga
Talvolta vi cola dalle ciglia come pianto
o a scazzimma re creature, a mattina appena svegli, dall’angolo da cornea.
A nuie ce sfregia a luce, invece
ci tagliuzza, ci sminuzza, squarta
nun appena a iamme incontro
La dobbiamo attraversare come a lutto
ciechi, incappucciati a boia
fotoresistenti quasi, sagome d’amianto
Tutto è senza rischio. O almeno così appare.
Tutto è senza orrore curve inibizioni.
Nu muro eterno a voi vi libera dai raggi
li rimanda li riflette
Scherma.
La luce non vi acceca, no
non è per voi tortura,
una fissa ed atroce compagnia.
Piuttosto vi accarezza
vi lusinga
Talvolta vi cola dalle ciglia come pianto
o a scazzimma re creature, a mattina appena svegli, dall’angolo da cornea.
A nuie ce sfregia a luce, invece
ci tagliuzza, ci sminuzza, squarta
nun appena a iamme incontro
La dobbiamo attraversare come a lutto
ciechi, incappucciati a boia
fotoresistenti quasi, sagome d’amianto

martedì 9 febbraio 2010
###---->
Strutture artificiali per tingermi di giusto
Copioni ormai scontati per muovermi sicuro
Banale ma sicuro
Ma quando ti allontani non ha più significato
E mi vedo nudo con quello che non ho
Quando ti allontani vedo il vuoto nei tuoi occhi
E la nausea per la vita che non ho
Perdendo un amico resta solo dolore
Perdendo un amico che ha ragione ad andare
Quando ti allontani mi sento ancor più nulla
Di fronte alla mia malafede
Quando ti allontani non so più cosa fare,
Non andare
Copioni ormai scontati per muovermi sicuro
Banale ma sicuro
Ma quando ti allontani non ha più significato
E mi vedo nudo con quello che non ho
Quando ti allontani vedo il vuoto nei tuoi occhi
E la nausea per la vita che non ho
Perdendo un amico resta solo dolore
Perdendo un amico che ha ragione ad andare
Quando ti allontani mi sento ancor più nulla
Di fronte alla mia malafede
Quando ti allontani non so più cosa fare,
Non andare
lunedì 1 febbraio 2010
non potrà fare niente cchiù che lasciarmi arenare su una spiaggia
Caravaggio in due mosse
- Prima mossa, Milano
Tu devi immaginare che la luce non viene ma va.
Se ne fugge proprio come un esercito in disarmo; scappa via. E’ questa la luce vera, che consegna ogni cosa al buio. Pensa a questo corpo di bimbo addormentato in un nero di pece: non è un ritratto lo vedi? No.
La posa, se guardi la posa, vedi benissimo che non dorme per niente, anzi. E’ messo lì così: come uno avrebbe messo le mele, le pere, l’uva, gli strumenti e i cesti per una natura morta. Non è un ritratto di un dormiente, ma è proprio una natura morta, dove il soggetto è un bambino.
Che dico? Non è il bambino il soggetto.
Il soggetto è il nero, che si sta mangiando l’amorino, le sue frecce, la faretra, le sue ali, e la luce? Beh, quella – come ti dicevo – scappa proprio come una donna che corre via dagli sgherri che la inseguono e si dilegua.
Qui la luce è dileguata come mia madre e mio padre.
Non so perché ti dico queste cose, ma ieri – il giorno dopo la mostra – ho avuto questa impressione che i miei genitori si dileguassero. Sparissero poco per volta come una brutta tela dipinta.
Mia madre ha ancora i segni dell’operazione e della sua malattia, è dimagrita tantissimo. La pelle non è più elastica come un tempo; c’è stato un momento breve ieri, quando il giorno tentava di finire e non avevamo ancora aperto la luce, che ho visto mia madre e il suo viso come nuovi per me e per quello che mi dicevano. Le rughe si sono fatte più pesanti e nette intorno agli occhi e nel viso e anche le mani gliel’ho viste rovinate e spurie, quasi non fossero più le sue, diverse da quelle che aveva tenuto intrecciate alle mie fino a qualche momento prima.
La luce andava via e mia madre spariva con lei e quello che mi consegnava, perché anche il buio, tu lo devi sapere, anzi tu lo sai benissimo, ci lascia qualcosa in cambio, era una pelle nuda e grinzosa, che faticavo a chiamare: mamma.
E così ho capito quel turbamento che mi aveva preso guardando la resurrezione di Lazzaro, e tu sai quale inquietudine mi provochi quell’episodio terribile e violento: il corpo morto di Lazzaro illuminato e tutto il nero intorno; sopra di lui sotto di lui, i visi degli altri ancora nella oscurità. E’ una luce grigia quella di Lazzaro, quella che emana il suo corpo, la luce medesima a quella di Milano sotto la neve, che si è dileguata subito, dico, la neve ed è rimasta una paciara grigiastra di acqua e pietrame, che sembrava il corpo di un morto.
Milano era il corpo di Lazzaro, la luce del miracolo è grigia, non è luminosa, tutti sono avvolti nel buio oppure in questo strato cellophanato di nebbia, acquerognola e nevischio.
Vorrei comunicare a te tutta la violenza visiva, che è in Caravaggio, perché tutto questo discorrerti addosso nasce dai suoi quadri, da questa opera che è un apprendimento dell’ombra, dello scuro e della violenza, ché la vita è una violenza continua, guarda l’incoronazione di spine o la cattura di Gesù per convincertene, e vorrei proprio mettertela davanti mia madre grigia come Lazzaro.
Una tonalità simile, lo stesso grigio marmoreo, l’avevo vista sulla carne appena aperta e richiusa dai medici del corpo di mio padre nudo, sotto una coperta, della nudità di un cuore che si ferma e poi riparte.
Ieri mio padre era sotto che spazzava le foglie cadute dal viso e faceva movimenti rapidi con la saggina in mano; era un freddo netto e pungente e poco prima l’avevo visto addormentato sul tavolo della cucina: un braccio allungato sul legno e la testa appoggiata sopra. Ho pensato al San Gerolamo, un’altra di quelle figure, di quelle immagini perturbanti per me, che mi rimandano ad altre cose tutte precise e nette, che non riesco a dirti, che dovrei ma che non escono, se non a folate inaspettate.
Il braccio allungato, la muscolatura ormai vecchia, ho pensato che mio padre addormentato continuasse il quadro. Anche Gerolamo, mi sono detto, si sarà addormentato così sullo scrittoio. E ho pensato a Caravaggio e a quanti vecchi morti avesse visto con le loro carni bianchicce e smunte, morte del tutto, e se ne avesse copiato nei suoi fogli con schizzi rapidi, la muscolatura, le grinze della pelle per poter dipingere il suo Gerolamo.
Mi sono fatto convinto che Gerolamo mi parli, in maniera misteriosa, di quello che sarebbe il mio essere scrittore, la motivazione più segreta per cui io scrivo, ed è strano che io ti dica questo dopo una mostra di quadri, ma credo che scrivere sia legato alla possibilità di portare via qualche resto dalla gola del leone. In questo quadro, in questo di Caravaggio, il leone non c’era, ma Gerolamo ha sempre un leone intorno; beh io credo che scrivere sia salvare dalla gola del leone qualcosa prima che venga del tutto sbranato, prima che ogni cosa venga ingoiata dal buio. C’è un senso, miserrimo quanto vuoi, in queste mie parole e nel fatto di dirmi scrittore, ed è questo: scrivo perché qualcosa si salvi. Perché nessuno muoia del tutto, perché ne rimanga almeno un resto mortificato ma presente.
- Prima mossa, Milano
Tu devi immaginare che la luce non viene ma va.
Se ne fugge proprio come un esercito in disarmo; scappa via. E’ questa la luce vera, che consegna ogni cosa al buio. Pensa a questo corpo di bimbo addormentato in un nero di pece: non è un ritratto lo vedi? No.
La posa, se guardi la posa, vedi benissimo che non dorme per niente, anzi. E’ messo lì così: come uno avrebbe messo le mele, le pere, l’uva, gli strumenti e i cesti per una natura morta. Non è un ritratto di un dormiente, ma è proprio una natura morta, dove il soggetto è un bambino.
Che dico? Non è il bambino il soggetto.
Il soggetto è il nero, che si sta mangiando l’amorino, le sue frecce, la faretra, le sue ali, e la luce? Beh, quella – come ti dicevo – scappa proprio come una donna che corre via dagli sgherri che la inseguono e si dilegua.
Qui la luce è dileguata come mia madre e mio padre.
Non so perché ti dico queste cose, ma ieri – il giorno dopo la mostra – ho avuto questa impressione che i miei genitori si dileguassero. Sparissero poco per volta come una brutta tela dipinta.
Mia madre ha ancora i segni dell’operazione e della sua malattia, è dimagrita tantissimo. La pelle non è più elastica come un tempo; c’è stato un momento breve ieri, quando il giorno tentava di finire e non avevamo ancora aperto la luce, che ho visto mia madre e il suo viso come nuovi per me e per quello che mi dicevano. Le rughe si sono fatte più pesanti e nette intorno agli occhi e nel viso e anche le mani gliel’ho viste rovinate e spurie, quasi non fossero più le sue, diverse da quelle che aveva tenuto intrecciate alle mie fino a qualche momento prima.
La luce andava via e mia madre spariva con lei e quello che mi consegnava, perché anche il buio, tu lo devi sapere, anzi tu lo sai benissimo, ci lascia qualcosa in cambio, era una pelle nuda e grinzosa, che faticavo a chiamare: mamma.
E così ho capito quel turbamento che mi aveva preso guardando la resurrezione di Lazzaro, e tu sai quale inquietudine mi provochi quell’episodio terribile e violento: il corpo morto di Lazzaro illuminato e tutto il nero intorno; sopra di lui sotto di lui, i visi degli altri ancora nella oscurità. E’ una luce grigia quella di Lazzaro, quella che emana il suo corpo, la luce medesima a quella di Milano sotto la neve, che si è dileguata subito, dico, la neve ed è rimasta una paciara grigiastra di acqua e pietrame, che sembrava il corpo di un morto.
Milano era il corpo di Lazzaro, la luce del miracolo è grigia, non è luminosa, tutti sono avvolti nel buio oppure in questo strato cellophanato di nebbia, acquerognola e nevischio.
Vorrei comunicare a te tutta la violenza visiva, che è in Caravaggio, perché tutto questo discorrerti addosso nasce dai suoi quadri, da questa opera che è un apprendimento dell’ombra, dello scuro e della violenza, ché la vita è una violenza continua, guarda l’incoronazione di spine o la cattura di Gesù per convincertene, e vorrei proprio mettertela davanti mia madre grigia come Lazzaro.
Una tonalità simile, lo stesso grigio marmoreo, l’avevo vista sulla carne appena aperta e richiusa dai medici del corpo di mio padre nudo, sotto una coperta, della nudità di un cuore che si ferma e poi riparte.
Ieri mio padre era sotto che spazzava le foglie cadute dal viso e faceva movimenti rapidi con la saggina in mano; era un freddo netto e pungente e poco prima l’avevo visto addormentato sul tavolo della cucina: un braccio allungato sul legno e la testa appoggiata sopra. Ho pensato al San Gerolamo, un’altra di quelle figure, di quelle immagini perturbanti per me, che mi rimandano ad altre cose tutte precise e nette, che non riesco a dirti, che dovrei ma che non escono, se non a folate inaspettate.
Il braccio allungato, la muscolatura ormai vecchia, ho pensato che mio padre addormentato continuasse il quadro. Anche Gerolamo, mi sono detto, si sarà addormentato così sullo scrittoio. E ho pensato a Caravaggio e a quanti vecchi morti avesse visto con le loro carni bianchicce e smunte, morte del tutto, e se ne avesse copiato nei suoi fogli con schizzi rapidi, la muscolatura, le grinze della pelle per poter dipingere il suo Gerolamo.
Mi sono fatto convinto che Gerolamo mi parli, in maniera misteriosa, di quello che sarebbe il mio essere scrittore, la motivazione più segreta per cui io scrivo, ed è strano che io ti dica questo dopo una mostra di quadri, ma credo che scrivere sia legato alla possibilità di portare via qualche resto dalla gola del leone. In questo quadro, in questo di Caravaggio, il leone non c’era, ma Gerolamo ha sempre un leone intorno; beh io credo che scrivere sia salvare dalla gola del leone qualcosa prima che venga del tutto sbranato, prima che ogni cosa venga ingoiata dal buio. C’è un senso, miserrimo quanto vuoi, in queste mie parole e nel fatto di dirmi scrittore, ed è questo: scrivo perché qualcosa si salvi. Perché nessuno muoia del tutto, perché ne rimanga almeno un resto mortificato ma presente.
*
- Seconda mossa, Napoli
Tu cammini con me in via dei Tribunali.
Saliamo lungo la strada, io ti indico le cose come se tu ci fossi, anche se forse stai in qualche contrada nebbiosa. Ti vedo che guardi le scatole delle scarpe, ma io ti porto in questa via stretta e famosa delle budella napoletane.
E’ sera e ci sono dei sacchi dell’immondizia davanti all’androne di un palazzo. Sentiamo squittire, ma uno squittio forte, che rimbomba, vediamo muoversi la plastica e un topo ci attraversa la strada. Ecco. Sobbalzi.
“E’ un topo…”
“Sì…”
“Ma era gigante come un gatto, o una bestia strana”
“Tu ce l’hai con gli animali fantastici”
“Sì…”
“E chissà quanti topi avrà visto Caravaggio passando di qua”
E mentre ti dico questo, ti dissolvi e sparisci, perché non sei qui.
Il Pio Monte di Pietà sta in via dei Tribunali. La mattina fa diversa la città: non ci sono né topi e né ombre. Entro, tu non sei. Non ho idea di quando ti farai rivedere, vado direttamente al quadro, che è nella cappella dell’altare maggiore. Penso a Caravaggio che ha dipinto questa opera, perché fosse posizionata proprio lì. Quindi lo guardo per bene e immagino i paramenti dei preti secenteschi, i vestiti, le funzioni. Rivedo lo sfarzo potente di chi s’ingegna di convincere sé e i fedeli ad accettare la morte.
Allora mi alzo e vado fino alla balaustra e ti mostro il quadro.
Partiamo dall’alto, vuoi?
Guarda i due angeli muscolosi, potenti. Sono angeli quelli? Dipinti così, in quel modo? Non si abbracciano (anche se la guida lo dice), no quei si stanno picchiando. Caravaggio sapeva cosa voleva dire la zuffa. Conosceva le mosse che fanno i corpi in quel momento, lui stesso era uno così. La misericordia è violenta: è sopruso, è rivolgimento. Vedo gli angeli e penso a Giacobbe che combatte. Come lo racconta la Bibbia?
Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.
Vedi? Per essere benedetti, salvati, graziati, bisogna alzare le mani e dare dei morsi, perché la misericordia è azione violenta. Ecco il nero da cui precipitano i due con la Madonna, che tiene stretto il dio bambino. Proprio come succede nei vicoli, quando ci si mena o si sentono gli spari, e allora le donne prendono il proprio figlio e lo tengono a sé come se la loro carne fosse indistruttibile, immarcescibile al male.
Le opere di pietà sono sei, ma Caravaggio ne aggiunge una, stravolgendo la norma. (Certe volte ripenso all’Amorino addormentato e mi dico che lui ha desiderato uccidere quel bambino solo per poterlo dipingere. Ma lasciamo perdere le mie fantasie da scrittore, ti voglio parlare di questo quadro, perché alla fine di tutto c’è una cosa che ti riguarda, ma devi starmi a sentire).
Le opere di pietà, secondo il vangelo di Matteo, sono sei: visitare i carcerati, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, curare gli infermi, dar da bere agli assetati, ospitare i pellegrini. A queste il pittore ne aggiunge una, la settima: seppellire i morti.
Sul fondo del quadro vedi due personaggi, uno con una candela e l’altro che trascina qualcosa. Se osservi bene vedi che è un morto. Scorgi i piedi, ma immagini tutto: la schiena striscia per terra, le braccia che vanno dietro e il capo a seguire i sobbalzi del selciato. Il corpo è filiforme, l’uomo è morto di inedia (i libri di storia ti raccontano che nel seicento Napoli fu decimata da carestie).
Le gambe sono magrissime, si vedono le ossa e lo sterno mostra l’arpa delle costole, che sembra suonino. Mentre ti descrivo questa scena, mi rendo conto di riscrivere Se questo è un uomo. La pagina finale, dove Primo e un suo compagno stanno riversando sulla neve la cosa Somogiy. La cosa Somogiy era un uomo, che è diventato un pezzo, magro, vuoto, grigio. E ora viene lasciato sulla neve. Vedi cosa è la misericordia? Trascinare una povera cosa, un fagotto di niente sulla terra per lasciarlo lì oppure per tumularlo con altri cento in una fossa comune.
Me lo vedo il tipo che, sacramentando con dio e parlando con l’altro, che gli regge la candela, tira il cadavere.
Uno dice all’altro: Se li seppelliamo tutti nella stessa fossa, come farà dio a riconoscerli
L’altro: Dio è potente saprà lui come.
Uno: sicuro? Se è così forte, perché allora non ci dà da mangiare?
L’altro: Che ne sai tu di dio? Che se lui vuole prende tutte le ossa e le fa risorgere.
Uno: Io dico solo che questo morto mi sembra uguale all’altro che ho portato un’ora fa. E tra qualche anno questo po’ di carne non ci sarà e saranno solo ossa. Neppure dio può distinguere…
L’altro: Dio può…
Uno: Anche il male?
L’altro: Se vuole sì anche il male. Se dio è tutto, è anche il male.
Il quadro in primo piano ha un corpo, una schiena nuda, che cattura l’attenzione di chi guarda: è l’ignudo che un giovane cavaliere, San Martino, riveste. Mentre vedo la precisione dei muscoli mi dico che quest’opera è tutta pregna di cose di questo mondo che non sono di questo mondo.
Davanti a noi abbiamo un uomo nudo dipinto nell’atto di rialzarsi. Forse è uno dei tanti amati dal pittore, forse è il tuo fidanzato, forse sono io che mi alzo dal letto. E’ l’uomo dopo che ha fatto l’amore. Il corpo, che ne ha posseduto un altro, si alza per lavarsi e per andare al bagno.
Sarà capitato a te, come a me e non dubito che sia successo a Caravaggio, ma lui lo trasforma, lo reinventa.
Amare, fare sesso sono modi diversi di sublimare la nostra voglia di morire. Finito l’amore, ci alziamo, come risorgendo. Quello non è un semplice ignudo, un povero, ma rappresenta il corpo risorto, le ossa esenti dalla morte.
Il quadro è tutto così: prendere il quotidiano, quello che il pittore poteva vedere negli anfratti di Napoli, e trasformarlo in una cosa più potente. Ed è questo poi il motivo segreto del perché scriviamo parole su parole.
In un certo senso io scrivo di te per farti del male e nel fartelo ti salvo e mi salvo. Quella schiena nuda, dopo l’amore dopo la morte, è simbolo di tutto questo. Caravaggio ha dipinto con la stessa rabbia con cui ha ucciso e io ora ci sto mettendo la medesima ferocia.
C’è un’immagine, l’ultima che cattura la mia attenzione.
Sulla destra c’è un vecchio incarcerato. Vicino a lui una giovane donna che gli porge il seno. Se guardi bene, sul grigio della barba vedi alcune macchie bianche. Sono gocce di latte che gli scivolano nell’atto della suzione. Con quest’immagine, il pittore rappresenta due diverse opere di pietà: visitare i carcerati e dare da mangiare agli affamati. E lo fa rappresentando la storia di Cimmone e di sua figlia Pero. Cimmone fu condannato a morte per fame in carcere, ma sua figlia ogni giorno andava a nutrirlo con il latte del suo seno.
Mentre guardavo questa immagine ti sei fatta in me di nuovo. Eri lì e ti ho fatto vedere il seno della donna, il suo guardarsi intorno perché non arrivi nessuno, il volto del vecchio e la sua fame vorace.
Ho sempre amato i quadri in cui la Madonna è ritratta con il seno scoperto che nutre dio bambino. Mi sembra l’unico momento pacifico del “farsi carne”. Cosa avrà provato Maria quando dio le succhiava il seno? Paura, timore? O forse niente, ma in quel momento erano solo madre e figlio, senza abissi siderali a dividerli.
Ho pensato a te e al tuo seno in quel momento e avrei voluto bere il tuo latte.
Ho immaginato che qualcuno ti avesse meritata e che fossi madre di un bimbo. Allora ti avrei chiesto di bere, l’avrei fatto come Cimmone e dio stesso, prendendo il capezzolo in bocca e dandoti piccoli strappi, leggeri.
All’inizio ti avrebbe fatto male, ma poi avresti solo detto: ti nutro.
E infine avremmo riso di quel po’ di gocce che cadendo avrebbero macchiato la maglietta, l’unica misera grazia.
di Demetrio Paolin
- Seconda mossa, Napoli
Tu cammini con me in via dei Tribunali.
Saliamo lungo la strada, io ti indico le cose come se tu ci fossi, anche se forse stai in qualche contrada nebbiosa. Ti vedo che guardi le scatole delle scarpe, ma io ti porto in questa via stretta e famosa delle budella napoletane.
E’ sera e ci sono dei sacchi dell’immondizia davanti all’androne di un palazzo. Sentiamo squittire, ma uno squittio forte, che rimbomba, vediamo muoversi la plastica e un topo ci attraversa la strada. Ecco. Sobbalzi.
“E’ un topo…”
“Sì…”
“Ma era gigante come un gatto, o una bestia strana”
“Tu ce l’hai con gli animali fantastici”
“Sì…”
“E chissà quanti topi avrà visto Caravaggio passando di qua”
E mentre ti dico questo, ti dissolvi e sparisci, perché non sei qui.
Il Pio Monte di Pietà sta in via dei Tribunali. La mattina fa diversa la città: non ci sono né topi e né ombre. Entro, tu non sei. Non ho idea di quando ti farai rivedere, vado direttamente al quadro, che è nella cappella dell’altare maggiore. Penso a Caravaggio che ha dipinto questa opera, perché fosse posizionata proprio lì. Quindi lo guardo per bene e immagino i paramenti dei preti secenteschi, i vestiti, le funzioni. Rivedo lo sfarzo potente di chi s’ingegna di convincere sé e i fedeli ad accettare la morte.
Allora mi alzo e vado fino alla balaustra e ti mostro il quadro.
Partiamo dall’alto, vuoi?
Guarda i due angeli muscolosi, potenti. Sono angeli quelli? Dipinti così, in quel modo? Non si abbracciano (anche se la guida lo dice), no quei si stanno picchiando. Caravaggio sapeva cosa voleva dire la zuffa. Conosceva le mosse che fanno i corpi in quel momento, lui stesso era uno così. La misericordia è violenta: è sopruso, è rivolgimento. Vedo gli angeli e penso a Giacobbe che combatte. Come lo racconta la Bibbia?
Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”.
Vedi? Per essere benedetti, salvati, graziati, bisogna alzare le mani e dare dei morsi, perché la misericordia è azione violenta. Ecco il nero da cui precipitano i due con la Madonna, che tiene stretto il dio bambino. Proprio come succede nei vicoli, quando ci si mena o si sentono gli spari, e allora le donne prendono il proprio figlio e lo tengono a sé come se la loro carne fosse indistruttibile, immarcescibile al male.
Le opere di pietà sono sei, ma Caravaggio ne aggiunge una, stravolgendo la norma. (Certe volte ripenso all’Amorino addormentato e mi dico che lui ha desiderato uccidere quel bambino solo per poterlo dipingere. Ma lasciamo perdere le mie fantasie da scrittore, ti voglio parlare di questo quadro, perché alla fine di tutto c’è una cosa che ti riguarda, ma devi starmi a sentire).
Le opere di pietà, secondo il vangelo di Matteo, sono sei: visitare i carcerati, dar da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, curare gli infermi, dar da bere agli assetati, ospitare i pellegrini. A queste il pittore ne aggiunge una, la settima: seppellire i morti.
Sul fondo del quadro vedi due personaggi, uno con una candela e l’altro che trascina qualcosa. Se osservi bene vedi che è un morto. Scorgi i piedi, ma immagini tutto: la schiena striscia per terra, le braccia che vanno dietro e il capo a seguire i sobbalzi del selciato. Il corpo è filiforme, l’uomo è morto di inedia (i libri di storia ti raccontano che nel seicento Napoli fu decimata da carestie).
Le gambe sono magrissime, si vedono le ossa e lo sterno mostra l’arpa delle costole, che sembra suonino. Mentre ti descrivo questa scena, mi rendo conto di riscrivere Se questo è un uomo. La pagina finale, dove Primo e un suo compagno stanno riversando sulla neve la cosa Somogiy. La cosa Somogiy era un uomo, che è diventato un pezzo, magro, vuoto, grigio. E ora viene lasciato sulla neve. Vedi cosa è la misericordia? Trascinare una povera cosa, un fagotto di niente sulla terra per lasciarlo lì oppure per tumularlo con altri cento in una fossa comune.
Me lo vedo il tipo che, sacramentando con dio e parlando con l’altro, che gli regge la candela, tira il cadavere.
Uno dice all’altro: Se li seppelliamo tutti nella stessa fossa, come farà dio a riconoscerli
L’altro: Dio è potente saprà lui come.
Uno: sicuro? Se è così forte, perché allora non ci dà da mangiare?
L’altro: Che ne sai tu di dio? Che se lui vuole prende tutte le ossa e le fa risorgere.
Uno: Io dico solo che questo morto mi sembra uguale all’altro che ho portato un’ora fa. E tra qualche anno questo po’ di carne non ci sarà e saranno solo ossa. Neppure dio può distinguere…
L’altro: Dio può…
Uno: Anche il male?
L’altro: Se vuole sì anche il male. Se dio è tutto, è anche il male.
Il quadro in primo piano ha un corpo, una schiena nuda, che cattura l’attenzione di chi guarda: è l’ignudo che un giovane cavaliere, San Martino, riveste. Mentre vedo la precisione dei muscoli mi dico che quest’opera è tutta pregna di cose di questo mondo che non sono di questo mondo.
Davanti a noi abbiamo un uomo nudo dipinto nell’atto di rialzarsi. Forse è uno dei tanti amati dal pittore, forse è il tuo fidanzato, forse sono io che mi alzo dal letto. E’ l’uomo dopo che ha fatto l’amore. Il corpo, che ne ha posseduto un altro, si alza per lavarsi e per andare al bagno.
Sarà capitato a te, come a me e non dubito che sia successo a Caravaggio, ma lui lo trasforma, lo reinventa.
Amare, fare sesso sono modi diversi di sublimare la nostra voglia di morire. Finito l’amore, ci alziamo, come risorgendo. Quello non è un semplice ignudo, un povero, ma rappresenta il corpo risorto, le ossa esenti dalla morte.
Il quadro è tutto così: prendere il quotidiano, quello che il pittore poteva vedere negli anfratti di Napoli, e trasformarlo in una cosa più potente. Ed è questo poi il motivo segreto del perché scriviamo parole su parole.
In un certo senso io scrivo di te per farti del male e nel fartelo ti salvo e mi salvo. Quella schiena nuda, dopo l’amore dopo la morte, è simbolo di tutto questo. Caravaggio ha dipinto con la stessa rabbia con cui ha ucciso e io ora ci sto mettendo la medesima ferocia.
C’è un’immagine, l’ultima che cattura la mia attenzione.
Sulla destra c’è un vecchio incarcerato. Vicino a lui una giovane donna che gli porge il seno. Se guardi bene, sul grigio della barba vedi alcune macchie bianche. Sono gocce di latte che gli scivolano nell’atto della suzione. Con quest’immagine, il pittore rappresenta due diverse opere di pietà: visitare i carcerati e dare da mangiare agli affamati. E lo fa rappresentando la storia di Cimmone e di sua figlia Pero. Cimmone fu condannato a morte per fame in carcere, ma sua figlia ogni giorno andava a nutrirlo con il latte del suo seno.
Mentre guardavo questa immagine ti sei fatta in me di nuovo. Eri lì e ti ho fatto vedere il seno della donna, il suo guardarsi intorno perché non arrivi nessuno, il volto del vecchio e la sua fame vorace.
Ho sempre amato i quadri in cui la Madonna è ritratta con il seno scoperto che nutre dio bambino. Mi sembra l’unico momento pacifico del “farsi carne”. Cosa avrà provato Maria quando dio le succhiava il seno? Paura, timore? O forse niente, ma in quel momento erano solo madre e figlio, senza abissi siderali a dividerli.
Ho pensato a te e al tuo seno in quel momento e avrei voluto bere il tuo latte.
Ho immaginato che qualcuno ti avesse meritata e che fossi madre di un bimbo. Allora ti avrei chiesto di bere, l’avrei fatto come Cimmone e dio stesso, prendendo il capezzolo in bocca e dandoti piccoli strappi, leggeri.
All’inizio ti avrebbe fatto male, ma poi avresti solo detto: ti nutro.
E infine avremmo riso di quel po’ di gocce che cadendo avrebbero macchiato la maglietta, l’unica misera grazia.
di Demetrio Paolin
venerdì 29 gennaio 2010
venerdì 15 gennaio 2010
checosasonolenuvole
Dalla stazione alle strade, ubriaco, la lingua modellata da birra tiepida e scadente…passeggiando un mio fischiare senza senso…di spalle i suoi passi che richiamavano una musica antica... il vento di scirocco a contendersi con le mie labbra il gusto effimero della birra.
la fissai per altri, interminabili, secondi.
la fissai per altri, interminabili, secondi.

mercoledì 13 gennaio 2010
venerdì 8 gennaio 2010
Come in Atlantide
Lui adesso vive ad Atlantide
con un cappello pieno di ricordi
ha la faccia di uno che ha capito
e anche un principio di tristezza in fondo all'anima
nasconde sotto il letto barattoli di birra disperata
e a volte ritiene di essere un eroe
Lui adesso vive in California
da 7 anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole
è diventato un grosso suonatore di chitarre
e stravede per una donna chiamata Lisa
quando le dice tu sei quella con cui vivere
gli si forma una ruga sulla guancia sinistra
Lui adesso vive nel terzo raggio
dove ha imparato a non fare più domande del tipo
conoscete per caso una ragazza di Roma
la cui faccia ricorda il crollo di una diga?
io la incontrai un giorno ed imparai il suo nome
ma mi portò lontano il vizio dell'amore
E così pensava l'uomo di passaggio
mentre volava alto sul cielo di Napoli
rubatele pure i soldi rubatele anche i ricordi
ma lasciatele sempre la sua dolce curiosità
ditele che l'ho perduta quando l'ho capita
ditele che la perdono per averla tradita.
con un cappello pieno di ricordi
ha la faccia di uno che ha capito
e anche un principio di tristezza in fondo all'anima
nasconde sotto il letto barattoli di birra disperata
e a volte ritiene di essere un eroe
Lui adesso vive in California
da 7 anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole
è diventato un grosso suonatore di chitarre
e stravede per una donna chiamata Lisa
quando le dice tu sei quella con cui vivere
gli si forma una ruga sulla guancia sinistra
Lui adesso vive nel terzo raggio
dove ha imparato a non fare più domande del tipo
conoscete per caso una ragazza di Roma
la cui faccia ricorda il crollo di una diga?
io la incontrai un giorno ed imparai il suo nome
ma mi portò lontano il vizio dell'amore
E così pensava l'uomo di passaggio
mentre volava alto sul cielo di Napoli
rubatele pure i soldi rubatele anche i ricordi
ma lasciatele sempre la sua dolce curiosità
ditele che l'ho perduta quando l'ho capita
ditele che la perdono per averla tradita.
F.dG.
1976
martedì 5 gennaio 2010
lunedì 4 gennaio 2010
sabato 2 gennaio 2010
donne di ferro.
In famiglia eravamo in quindici, undici figli, padre madre nonna nonno. Abitavamo tutti insieme in una casa a via Giusso. Tutti gli uomini della mia famiglia, da mio nonno ai miei fratelli, hanno lavorato all’Italsider. Le donne invece restavano a casa. Il discorso metalmeccanico era un discorso solo maschile. La mia famiglia è sempre stata comunista, a quei tempi Bagnoli era tutta rossa. Mi ricordo che durante lo sciopero dei cinquanta giorni, io portavo da mangiare a mio padre che era chiuso dentro la fabbrica insieme agli altri operai. Anche mia madre era una militante del Pci, stava nella cellula La Strada. Io si può dire che so’ nata comunista a’ dint ’a panza e mammema. Noi siamo però sempre stati anche cattolici, perché un comunista può essere anche cattolico. A essere sincera devo dire che io mi sono avvicinata davvero al partito quando ero già sposata, l’ho fatto per capire mio marito, la sua passione. Gli uomini a quei tempi parlavano poco quando tornavano a casa. Erano sempre stanchi. Le donne hanno cominciato a sapere di quello che succedeva dentro la fabbrica solo quando è arrivata la crisi, e allora sono scese in piazza insieme ai mariti, ai figli.
La fabbrica noi l’avevamo dentro casa. La polvere nera era dappertutto, sul balcone, dentro le camere da letto, nella pelle. Sì, nella pelle. Le ginocchia dei miei figli le dovevo lavare con la retina per farle tornare pulite. Queste inferriate per farle rimanere bianche le pulivo tutti i giorni. I panni erano sempre neri, quanti corredi ci hanno rimesso le donne di Bagnoli. Dint’ a stu palazzo tenimmo tutte ’e rini a piezze, stevomo sempe a puluzza’ . A quei tempi non lo sapevamo che quella polvere nera faceva male. Gli uomini spesso tossivano, c’erano casi di silicosi, ma noi non ci lamentavamo mai. E pure quando ce lo dicevano che faceva male, che dovevamo fare? quello per noi era pane, l’unico pane sicuro. La fabbrica per noi era tutto. Quando l’hanno chiusa è stato un lutto che non si può raccontare, in tutte le famiglie si stava male, si viveva quel momento piangendo. Tanti uomini sono entrati in depressione. A 50 anni sei ancora giovane, non te ne puoi stare con le mani in mano. Mio marito se l’è cavata solo perché aveva il partito. Per il marito di mia sorella invece è stato un brutto colpo, lui aveva solo il lavoro. È stata una grande sconfitta per tutti: avevamo lottato per non far chiudere la fabbrica, anche noi donne scendevamo in piazza. Scioperi, assemblee, picchetti di notte. Con un gruppo di donne andavamo casa per casa a fare volantinaggio. Molte di noi sono andate pure a Bruxelles; io no, perché avevo 3 figli, e non li potevo lasciare soli. Quelli sono stati momenti difficili ma anche bellissimi, stavamo tutti insieme, ci aiutavamo l’un l’altro.
Uno dei ricordi più belli della fabbrica per me è stato l’8 marzo in fabbrica, gli operai ci facettero trova’ ’e mimos’, gli uomini fecero pure una gara di cucina, alla fine vinse mio marito con un meraviglioso risotto ai funghi. Tengo ancora le foto con Franco vestito da cuoco. Erano venuti a suonà da Pomigliano e’ Zezi. Poi ci fu il discorso del sindaco, il primo sindaco comunista. Valenzi iniziò il discorso come faceva Berlinguer: “Care compagne…”. Era una cosa quel care compagne che ti faceva emozionare tutta. Ti faceva venire la pelle d’oca, perché in effetti la donna a quel tempo non era considerata assai.
Oggi il discorso sulla società industriale non gode di buona salute. Nessuno ne parla più, eppure è passato così poco. Il mondo delle grandi industrie va spegnendosi sotto i colpi di un sistema lavorativo, sociale, culturale, flessibile, atemporale e aspaziale, che ha scardinato il precedente mondo del lavoro e le sue griglie interpretative e di collocazione. Anche gli studi sulla fabbrica conoscono sempre meno fortuna:
l’industria, le sue donne e i suoi uomini sono stati abbandonati, dimessi, vinti dai cambiamenti del mercato e delle ideologie. La loro voce si è fatta sempre più labile di fronte alla fine di quel sistema economico e di valori, ma basta tendere l’orecchio che è possibile sentire ancora le sirene degli stabilimenti, la fatica del lavoro, i canti delle grandi manifestazioni così come vengono ricordati da quel mondo di vinti, che è il mondo della fabbrica.
Maria Scherillo
racconto tratto da
"Donne di ferro. Racconti dell’Ilva Italsider"
di Renata Pepicelli
Edizioni Mesogea
La fabbrica noi l’avevamo dentro casa. La polvere nera era dappertutto, sul balcone, dentro le camere da letto, nella pelle. Sì, nella pelle. Le ginocchia dei miei figli le dovevo lavare con la retina per farle tornare pulite. Queste inferriate per farle rimanere bianche le pulivo tutti i giorni. I panni erano sempre neri, quanti corredi ci hanno rimesso le donne di Bagnoli. Dint’ a stu palazzo tenimmo tutte ’e rini a piezze, stevomo sempe a puluzza’ . A quei tempi non lo sapevamo che quella polvere nera faceva male. Gli uomini spesso tossivano, c’erano casi di silicosi, ma noi non ci lamentavamo mai. E pure quando ce lo dicevano che faceva male, che dovevamo fare? quello per noi era pane, l’unico pane sicuro. La fabbrica per noi era tutto. Quando l’hanno chiusa è stato un lutto che non si può raccontare, in tutte le famiglie si stava male, si viveva quel momento piangendo. Tanti uomini sono entrati in depressione. A 50 anni sei ancora giovane, non te ne puoi stare con le mani in mano. Mio marito se l’è cavata solo perché aveva il partito. Per il marito di mia sorella invece è stato un brutto colpo, lui aveva solo il lavoro. È stata una grande sconfitta per tutti: avevamo lottato per non far chiudere la fabbrica, anche noi donne scendevamo in piazza. Scioperi, assemblee, picchetti di notte. Con un gruppo di donne andavamo casa per casa a fare volantinaggio. Molte di noi sono andate pure a Bruxelles; io no, perché avevo 3 figli, e non li potevo lasciare soli. Quelli sono stati momenti difficili ma anche bellissimi, stavamo tutti insieme, ci aiutavamo l’un l’altro.
Uno dei ricordi più belli della fabbrica per me è stato l’8 marzo in fabbrica, gli operai ci facettero trova’ ’e mimos’, gli uomini fecero pure una gara di cucina, alla fine vinse mio marito con un meraviglioso risotto ai funghi. Tengo ancora le foto con Franco vestito da cuoco. Erano venuti a suonà da Pomigliano e’ Zezi. Poi ci fu il discorso del sindaco, il primo sindaco comunista. Valenzi iniziò il discorso come faceva Berlinguer: “Care compagne…”. Era una cosa quel care compagne che ti faceva emozionare tutta. Ti faceva venire la pelle d’oca, perché in effetti la donna a quel tempo non era considerata assai.
Oggi il discorso sulla società industriale non gode di buona salute. Nessuno ne parla più, eppure è passato così poco. Il mondo delle grandi industrie va spegnendosi sotto i colpi di un sistema lavorativo, sociale, culturale, flessibile, atemporale e aspaziale, che ha scardinato il precedente mondo del lavoro e le sue griglie interpretative e di collocazione. Anche gli studi sulla fabbrica conoscono sempre meno fortuna:
l’industria, le sue donne e i suoi uomini sono stati abbandonati, dimessi, vinti dai cambiamenti del mercato e delle ideologie. La loro voce si è fatta sempre più labile di fronte alla fine di quel sistema economico e di valori, ma basta tendere l’orecchio che è possibile sentire ancora le sirene degli stabilimenti, la fatica del lavoro, i canti delle grandi manifestazioni così come vengono ricordati da quel mondo di vinti, che è il mondo della fabbrica.
Maria Scherillo
racconto tratto da
"Donne di ferro. Racconti dell’Ilva Italsider"
di Renata Pepicelli
Edizioni Mesogea
mercoledì 30 dicembre 2009
martedì 29 dicembre 2009
n#7
comincio io con una lettera di quattro anni fa.
quando bisognava inventarsi uno stile d'altri tempi che permettesse di pensare a quel dolore come qualcosa appartenente ad un mondo distante, non reale
Ma ditemi di voi. Dalle vostre poche battute non apprendo granchè a questo proposito. Vi confesso la mia preoccupazione. Al momento le giornate trascorrono un po’ vaghe, immerse in una sorta di gradevole tedio.
Fino a poco tempo fa di mattino mia madre mi accompagnava fino alle stazioni più vicine. Arrivavo solitamente al lungomare molto presto, quando i vapori di nebbia salgono ancora dal mare e la luce dell’aurora si distende come una patina opaca e sottile sulla superficie dell’acqua. Sapete, questa è l’ora più bella per ascoltare il fruscio della risacca che, pigramente, risorge dalle ombre della notte. Gli autunni marini a volte sanno essere terribilmente avari, perché in quei momenti la dolcezza raggiunge limiti estremi e voi non ci siete accanto.
Le mie forze stanno sciogliendosi giorno dopo giorno e da qualche tempo non ci ritorno più così presto lì, è come uno schianto ad ogni alba. Vorrei restare a letto ma ho paura anche di quello.
Vedete, quando chiudiamo gli occhi abbiamo l’illusione che anche il nostro dolore riposi insieme con noi. Nel regno del sonno ogni cosa diviene più lieve, ma anche più profonda, smisuratamente immensa. Non v’è nulla di così grave come un’ombra. Nessun altro peso altrettanto penoso e insostenibile. Le ombre tacciono, permettono i nostri tormenti. E’ la vita ciò che occorre interrogare, la vita ciò che conta sempre e in ogni caso.
Il tempo non ci appartiene mai realmente, ma è nella certezza del suo accadere infinito che noi riponiamo la speranza. questo è il mio sogno.
Oh quanta voglia avrei di avervi qui, in questo momento! Quanto bisogno delle vostre carezze e dei vostri baci! Quanta brama di poter toccare la vostra pelle e di sciogliervi i capelli. Quanto desiderio di farvi capire, di non arrecarvi mai più tristezza! Ma come riuscirci?
So bene di non bastarvi. Spero possiate trovare un posto anche per me nei vostri pensieri
Per adesso vi bacio, vostro
b.
Schiume
Con il mio corpo sulle spalle -
sangue dal naso contro la nuca,
bava verde sopra la tua mano -
discenderai questa montagna, Rainer:
vico della Calce, vico della Neve,
vico Cimitile, vico Filatoio,
epperò
tutt'a sghimbescio, tutto sottosopra,
specchio capovolto nella rètina dell'occhio,
cono rovesciato
la stanza sarà vuota come prima, senza me -
vuoto, altrettanto, il cunicolo di luce
la tana della poesia al terzo piano.
Avanzerai ingobbito, tu, al posto mio,
sotto il peso di un grifone a quattro teste -
mon cadavre -
piume ed artigli impallinati,
piombo scarlatto sulle lingue penzolanti.
Navi entreranno a Babilonia
su per le scalette, malsicure e puzzolenti,
degli embargos di Toledo:
spugna, la mia pelle, saliva, la scrittura:
sarò buono da mangiare alla Tavola dei Poveri -
festa di santa Maria - Cannibala -
occhi scuri, scuri, tragici, Medea.
sangue dal naso contro la nuca,
bava verde sopra la tua mano -
discenderai questa montagna, Rainer:
vico della Calce, vico della Neve,
vico Cimitile, vico Filatoio,
epperò
tutt'a sghimbescio, tutto sottosopra,
specchio capovolto nella rètina dell'occhio,
cono rovesciato
la stanza sarà vuota come prima, senza me -
vuoto, altrettanto, il cunicolo di luce
la tana della poesia al terzo piano.
Avanzerai ingobbito, tu, al posto mio,
sotto il peso di un grifone a quattro teste -
mon cadavre -
piume ed artigli impallinati,
piombo scarlatto sulle lingue penzolanti.
Navi entreranno a Babilonia
su per le scalette, malsicure e puzzolenti,
degli embargos di Toledo:
spugna, la mia pelle, saliva, la scrittura:
sarò buono da mangiare alla Tavola dei Poveri -
festa di santa Maria - Cannibala -
occhi scuri, scuri, tragici, Medea.
mercoledì 23 dicembre 2009
boulevard
Pensare per coppie pare che sia una necessità. Non si può dire caldo senza pensare al freddo, bianco senza coinvolgere il nero. Qualche volta le coppie sono del tutto arbitrarie.
Da bambino, a pochi anni di distanza dalla fine della prima guerra mondiale, quando sentivo dire “trento e trieste” vedevo due città sorelle, una sulla riva destra l’altra sulla riva sinistra di un fiume, con un ponte in mezzo. Il fiume era il Piave (molti dicevano ancora La Piave). Credo che molta gente continui a pensare “trento e trieste” allo stesso modo infantile.
Un'altra coppia arbitraria è “Grimm e Andersen”. Arbitraria come “trento e trieste”, ma anche di più, se non altro perché i Grimm erano in due, Jakob e Wilhelm, già per conto loro.
Una volta nel 1845, Andersen andò in Germania e si fece presentare a Jakob Grimm. “Chi è lei? Cosa ha scritto?” domandò il tedesco. “Fiabe”, rispose il danese, “ma lei deve conoscermi; è stata pubblicata una raccolta di fiabe di tutto il mondo dedicata a lei, in cui è riportata anche una mia fiaba…”. “Bene”, riprese il tedesco, “ma io quel libro non l’ho letto”!.
In seguito Andersen ottenne la sospirata amicizia dei due famosi fratelli che ignoravano ancora quanto lui fosse, a sua volta, famoso. Resta il valore simbolico dell’aneddoto: voi chi siete? si potrebbero domandare a vicenda le fiabe di Andersen e Grimm, e se alcune di loro potrebbero scoprirsi lontanamente parenti, in maggioranza sono estranee.
I Grimm raccolsero le loro fiabe dalla bocca del popolo tedesco, in un particolare momento del Romanticismo, anche se per fortuna non si comportarono da freddi scienziati del folklore.
Andersen raccontò a sua volta qualcuna delle fiabe ascoltate da bambino riportate nel libero ricordo della sua memoria; ma il corpus magnum delle sue fiabe se lo è tirato fuori, pagina per pagina, dalla sua fantasia e dalla sua vita.
I lettori hanno diritto, naturalmente, di disinteressarsi del processo che ha portato al prodotto finito...
Gianni Rodari
Prefazione dell’edizione del 1970 a
Fiabe – Hans Christian Andersen (Einaudi, 1954)
Da bambino, a pochi anni di distanza dalla fine della prima guerra mondiale, quando sentivo dire “trento e trieste” vedevo due città sorelle, una sulla riva destra l’altra sulla riva sinistra di un fiume, con un ponte in mezzo. Il fiume era il Piave (molti dicevano ancora La Piave). Credo che molta gente continui a pensare “trento e trieste” allo stesso modo infantile.
Un'altra coppia arbitraria è “Grimm e Andersen”. Arbitraria come “trento e trieste”, ma anche di più, se non altro perché i Grimm erano in due, Jakob e Wilhelm, già per conto loro.
Una volta nel 1845, Andersen andò in Germania e si fece presentare a Jakob Grimm. “Chi è lei? Cosa ha scritto?” domandò il tedesco. “Fiabe”, rispose il danese, “ma lei deve conoscermi; è stata pubblicata una raccolta di fiabe di tutto il mondo dedicata a lei, in cui è riportata anche una mia fiaba…”. “Bene”, riprese il tedesco, “ma io quel libro non l’ho letto”!.
In seguito Andersen ottenne la sospirata amicizia dei due famosi fratelli che ignoravano ancora quanto lui fosse, a sua volta, famoso. Resta il valore simbolico dell’aneddoto: voi chi siete? si potrebbero domandare a vicenda le fiabe di Andersen e Grimm, e se alcune di loro potrebbero scoprirsi lontanamente parenti, in maggioranza sono estranee.
I Grimm raccolsero le loro fiabe dalla bocca del popolo tedesco, in un particolare momento del Romanticismo, anche se per fortuna non si comportarono da freddi scienziati del folklore.
Andersen raccontò a sua volta qualcuna delle fiabe ascoltate da bambino riportate nel libero ricordo della sua memoria; ma il corpus magnum delle sue fiabe se lo è tirato fuori, pagina per pagina, dalla sua fantasia e dalla sua vita.
I lettori hanno diritto, naturalmente, di disinteressarsi del processo che ha portato al prodotto finito...
Gianni Rodari
Prefazione dell’edizione del 1970 a
Fiabe – Hans Christian Andersen (Einaudi, 1954)
lunedì 21 dicembre 2009
la favola è dentro di me
martedì 8 dicembre 2009
domenica 6 dicembre 2009
dalla parte del coltello
luna domenicale-io se sono vivo lo sono in questa terra-lo sono per la gioia di conoscerla-e darmi ad essa-per averla
militanz
Nell'era postmoderna, quando la figura del popolo si dissolve, il militante è colui che meglio esprime la vita della moltitudine. il militante è l'agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l'Impero.
Quando diciamo militante, non pensiamo al triste ascetico agente della Terza Internazionale, la cui anima era profondamente impregnata dalla ragion di stato sovietica, nello stesso modo in cui la volontà del papa gravava sui cuori dei cavalieri della Compagnia di Gesù.
Non intendiamo qualcuno che agisce per dovere e disciplina e che pretende di dedurre le proprie azioni da un piano ideale.
Intendiamo, al contrario, qualcuno che è molto ai combattenti comunisti delle rivoluzioni del XX secolo, agli intellettuali perseguitati ed esiliati nel corso delle lotte antifasciste, ai repubblicani della Guerra Civile spagnola e a coloro che parteciparono ai movimenti di resistenza in Europa, a coloro che hanno lottato per la libertà in tutte le guerre anticoloniali e antimperialiste.
Un prototipo di questa figura rivoluzionaria è il militante agitatore degli Industrial Workers of the World. I Wobbly diedero vita ad associazioni di lavoratori costruite dal basso attraverso continue agitazioni e, con questa forma di organizzazione, costituirono un pensiero utopico e una conoscenza rivoluzionaria.
Il militante era il protagonista principale della "lunga marcia" dell'emancipazione del lavoro tra XIX e XX secolo: una creativa singolarità in quel gigantesco movimento collettivo che fu la lotta di classe operaia.
In questo lungo periodo, l'attività del militante consisteva, prima di tutto, in una serie di pratiche di resistenza contro lo sfruttamento capitalistico in fabbrica e nella società. Essa consisteva, inoltre (attraverso, ma anche oltre la resistenza) in una costruzione collettiva e nell'esercizio di un contropotere capace di destrutturare il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo.
Il militante organizzava le lotte contro il cinismo della borghesia, l'alienazione monetaria, l'espropriazione della vita, lo sfruttamento del lavoro e la colonizzazione degli affetti. l'insurrezione era l'orgoglioso emblema del militante. Nella tragica storia delle lotte comuniste il militante fu ripetutamente martirizzato. Talvolta, ma non tanto spesso, le normali strutture dello stato di diritto potevano essere sufficienti per i compiti repressivi volti alla distruzione del contropotere. Quando però si rivelavano insufficienti, i fascisti e le guardi bianche dello stato del terrore - o le mafie nere al servizio dei capitalismi "democratici" - venivano invitati a dare una mano per rafforzare le strutture repressive legali.
Oggi, dopo troppe vittorie del capitalismo, dopo che le illusioni del socialismo sono definitivamente sfumate, e dopo che la violenza capitalistica contro il lavoro è stata solidificata sotto il nome di ultra-liberismo, perchè risorgono ancora le istanze della militanza, perchè si sono approfondite le resistenze, e come mai le lotte riemergono continuamente con rinnovato vigore ? Occorre sottolineare immediatamente che questa nuova militanza non è una replica delle formule organizzative della vecchia classe operaia rivoluzionaria. Oggi, il militante non pretende neanche di essere rappresentativo, neppure dei fondamentali bisogni umani degli sfruttati.
Oggi, la militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire quella che è sempre stata la sua forma originaria: un'attività costituente e non rappresentativa. Oggi, la militanza è una pratica positiva, costruttiva e innovatrice. Questa è la forma in cui noi e tutti coloro che si rivoltano contro il comando del capitale si riconoscono come militanti. I militanti reagiscono al comando dell'Impero creativamente. In altri termini, la resistenza è immediatamente collegata con un investimento costitutivo nel mondo biopolitico, volto alla creazione di dispositivi cooperativi di produzione e di comunità. Questa è la grande novità della militanza contemporanea: essa recupera le virtù dell'azione insurrezionale maturate in duecento anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, un mondo che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale ed ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro è, allora, la cooperazione produttiva dell'intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d'amore.
C'è un'antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso nel momento in cui identifica nella condizione comune della moltitudine la sua enorme ricchezza. In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell'ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere. Si tratta di una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poichè il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell'amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia di essere comunisti.
t.n.
Quando diciamo militante, non pensiamo al triste ascetico agente della Terza Internazionale, la cui anima era profondamente impregnata dalla ragion di stato sovietica, nello stesso modo in cui la volontà del papa gravava sui cuori dei cavalieri della Compagnia di Gesù.
Non intendiamo qualcuno che agisce per dovere e disciplina e che pretende di dedurre le proprie azioni da un piano ideale.
Intendiamo, al contrario, qualcuno che è molto ai combattenti comunisti delle rivoluzioni del XX secolo, agli intellettuali perseguitati ed esiliati nel corso delle lotte antifasciste, ai repubblicani della Guerra Civile spagnola e a coloro che parteciparono ai movimenti di resistenza in Europa, a coloro che hanno lottato per la libertà in tutte le guerre anticoloniali e antimperialiste.
Un prototipo di questa figura rivoluzionaria è il militante agitatore degli Industrial Workers of the World. I Wobbly diedero vita ad associazioni di lavoratori costruite dal basso attraverso continue agitazioni e, con questa forma di organizzazione, costituirono un pensiero utopico e una conoscenza rivoluzionaria.
Il militante era il protagonista principale della "lunga marcia" dell'emancipazione del lavoro tra XIX e XX secolo: una creativa singolarità in quel gigantesco movimento collettivo che fu la lotta di classe operaia.
In questo lungo periodo, l'attività del militante consisteva, prima di tutto, in una serie di pratiche di resistenza contro lo sfruttamento capitalistico in fabbrica e nella società. Essa consisteva, inoltre (attraverso, ma anche oltre la resistenza) in una costruzione collettiva e nell'esercizio di un contropotere capace di destrutturare il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo.
Il militante organizzava le lotte contro il cinismo della borghesia, l'alienazione monetaria, l'espropriazione della vita, lo sfruttamento del lavoro e la colonizzazione degli affetti. l'insurrezione era l'orgoglioso emblema del militante. Nella tragica storia delle lotte comuniste il militante fu ripetutamente martirizzato. Talvolta, ma non tanto spesso, le normali strutture dello stato di diritto potevano essere sufficienti per i compiti repressivi volti alla distruzione del contropotere. Quando però si rivelavano insufficienti, i fascisti e le guardi bianche dello stato del terrore - o le mafie nere al servizio dei capitalismi "democratici" - venivano invitati a dare una mano per rafforzare le strutture repressive legali.
Oggi, dopo troppe vittorie del capitalismo, dopo che le illusioni del socialismo sono definitivamente sfumate, e dopo che la violenza capitalistica contro il lavoro è stata solidificata sotto il nome di ultra-liberismo, perchè risorgono ancora le istanze della militanza, perchè si sono approfondite le resistenze, e come mai le lotte riemergono continuamente con rinnovato vigore ? Occorre sottolineare immediatamente che questa nuova militanza non è una replica delle formule organizzative della vecchia classe operaia rivoluzionaria. Oggi, il militante non pretende neanche di essere rappresentativo, neppure dei fondamentali bisogni umani degli sfruttati.
Oggi, la militanza politica rivoluzionaria deve riscoprire quella che è sempre stata la sua forma originaria: un'attività costituente e non rappresentativa. Oggi, la militanza è una pratica positiva, costruttiva e innovatrice. Questa è la forma in cui noi e tutti coloro che si rivoltano contro il comando del capitale si riconoscono come militanti. I militanti reagiscono al comando dell'Impero creativamente. In altri termini, la resistenza è immediatamente collegata con un investimento costitutivo nel mondo biopolitico, volto alla creazione di dispositivi cooperativi di produzione e di comunità. Questa è la grande novità della militanza contemporanea: essa recupera le virtù dell'azione insurrezionale maturate in duecento anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, un mondo che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale ed ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro è, allora, la cooperazione produttiva dell'intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto d'amore.
C'è un'antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso nel momento in cui identifica nella condizione comune della moltitudine la sua enorme ricchezza. In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell'ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione. Nella postmodernità, ci troviamo ancora nella situazione di Francesco a contrapporre la gioia di essere alla miseria del potere. Si tratta di una rivoluzione che sfuggirà al controllo, poichè il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell'amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia di essere comunisti.
t.n.
sabato 5 dicembre 2009
Il cielo di Danimarca
E' la Luna
un mulino a vento di un qualche Cervantes,
meta stanca e consunta del poeta,
il fruscio materno di lenzuola rimboccate,
o forse giacigli duri e freddi di marmo e cartone,
per strada.
Luna dei perdenti,
di chi ha scelto di non vincere,
dei sogni d'un prigioniero,
dei prigionieri d'un sogno.
di Dio e della sua impostura,
delle troie luride del suo regime,
la luna dei matti a raccoglier cicche spente dall'asfalto.
E' la Luna
sulle ceneri d'un tramonto,
nella polvere di fango d'un ideale,
nel finestrino dell’ultimo posto infondo
d’un fottutissimo pullman,
la luna dei viados e dei desaparecidos,
dei senza volto sulle strade del mondo,
delle canne lucide delle loro p38 in tasca,
di chi non sa mentire alla propria libertà.
La Luna chiara delle bombe su Belgrado,
delle sue grida di morte calcolata e necessaria,
la Luna dei macete ad Algeri,
del piombo di stato a Realidad,
la Luna di una vita derisa e svenduta
sui cellulari sudici di Wall-Street.
La Luna puttana del maledettissimo giorno
in cui te ne sei andata
seguita dalla scia dei miei sogni in frantumi
e dal sogno pulito del tuo dolore.
La luna della notte in cui sarò io a partire
e mi seguirai
senza troppi perchè
seguirai se vorrai anche la gioia del mio pianto,
la gioia di questa mia guerra,
il mio amore infinito per i tuoi passi.
un mulino a vento di un qualche Cervantes,
meta stanca e consunta del poeta,
il fruscio materno di lenzuola rimboccate,
o forse giacigli duri e freddi di marmo e cartone,
per strada.
Luna dei perdenti,
di chi ha scelto di non vincere,
dei sogni d'un prigioniero,
dei prigionieri d'un sogno.
di Dio e della sua impostura,
delle troie luride del suo regime,
la luna dei matti a raccoglier cicche spente dall'asfalto.
E' la Luna
sulle ceneri d'un tramonto,
nella polvere di fango d'un ideale,
nel finestrino dell’ultimo posto infondo
d’un fottutissimo pullman,
la luna dei viados e dei desaparecidos,
dei senza volto sulle strade del mondo,
delle canne lucide delle loro p38 in tasca,
di chi non sa mentire alla propria libertà.
La Luna chiara delle bombe su Belgrado,
delle sue grida di morte calcolata e necessaria,
la Luna dei macete ad Algeri,
del piombo di stato a Realidad,
la Luna di una vita derisa e svenduta
sui cellulari sudici di Wall-Street.
La Luna puttana del maledettissimo giorno
in cui te ne sei andata
seguita dalla scia dei miei sogni in frantumi
e dal sogno pulito del tuo dolore.
La luna della notte in cui sarò io a partire
e mi seguirai
senza troppi perchè
seguirai se vorrai anche la gioia del mio pianto,
la gioia di questa mia guerra,
il mio amore infinito per i tuoi passi.
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